La storia corre, l’Europa arranca

L’idea comunitaria era l’ultima grande utopia del ‘900 ma è stata un’illusione e ora in tutte le politiche mondiali c’è un deserto che si chiama Ue. Siamo nazioni condomine, non una comunità: invece che prendercela con gli olandesi, chiediamoci cos’ha fatto l’Italia per dar corpo agli Stati Uniti pensati da Altiero Spinelli. Nemmeno il virus pare poter scalfire la corazza dell’unione dei soli governi

di Fulvio Cammarano, storico


Ci troviamo in uno di quei momenti in cui il tempo – che oggi, all’interno delle case, ci appare immobile – sta accelerando al punto che a breve faremo fatica a riconoscere il paesaggio sociale e politico di pochi mesi fa. La storia conosce repentine accelerazioni che per lo più ci piombano addosso all’improvviso. Rivoluzione americana e francese, Prima guerra mondiale, rivoluzione russa, solo per fare qualche esempio, sono stati i classici eventi in grado di spostare molto in avanti le lancette dell’orologio della storia. L’accelerazione però non è sempre sinonimo o premessa di rigenerazione. Perché questa ci sia serve un rivolgimento, morale e materiale, che trasformi gli effetti delle straordinarie vicende in corso in un nuovo modo di intendere e organizzare la società.

La stratosferica accelerazione causata dalla Prima guerra mondiale, ad esempio, ci ha condotto, a causa della miope conduzione degli accordi di pace a Versailles, all’ecatombe della Seconda guerra mondiale. L’attuale disastro sanitario ed economico provocato dalla pandemia sembra preludere a un diverso criterio di “produzione” del sociale, non solo in termini di merci. Il day after si presenterà come un’insieme di nuovi modi di pensare, organizzare, consumare che solo in parte saranno stemperati dall’arrivo della vaccinazione di massa. Un fenomeno mondiale di questa portata, di cui ogni individuo sulla faccia della terra potrà parlare in prima persona per il resto della sua vita, comporterà, al di là dei lutti e dei danni economici, un’accelerazione negli immaginari e nei comportamenti di tutti.

L’angoscia non sarà più solo un sentimento privato, esistenziale, ma la consapevolezza pubblica che l’imponderabile rappresenta un rischio calcolato di un sistema capitalistico, come si sarebbe detto un tempo, che può inviare una sonda su Marte per trapanarne il suolo, ma non sa evitare la morte di migliaia di persone prive di dispositivi sanitari a basso impatto tecnologico, dalle mascherine, alle bombole d’ossigeno e ai ventilatori.

Se il tempo storico ne uscirà certamente accelerato, il problema è capire in che modo le istituzioni sapranno cogliere la profondità dei cambiamenti in atto. Un esempio per noi significativo è quello dell’Unione Europea. Siamo tutti consapevoli di essere immersi nell’unica logica che ha ormai senso, quella planetaria a cui è sempre più spesso indispensabile rifarsi per affrontare questioni ormai prive di quell’involucro protettivo che solo 50 anni fa si chiamava distanza spaziale. La distanza, oggi come allora, sembra essere la soluzione: peccato che ormai, sociale o spaziale che sia, sembra difficilmente praticabile. Clima, epidemie, migrazioni, ecologia, informazione sono solo alcuni dei problemi su cui sarebbe divertente, se non fosse tragico, intervenire come italiani, tedeschi o finlandesi, a fronte del moltiplicarsi della presenza e del peso di potenze mondiali o regionali.

L’idea di Europa nel secondo dopoguerra era nata dalla prospettiva di mettere fine alle guerre, tagliando l’erba sotto i piedi dei nazionalismi ritenuti colpevoli del disastro, e con l’obiettivo di ridurre l’alea delle catastrofi e l’insicurezza degli individui che vivevano in un continente da sempre dilaniato dai conflitti. “Europeo – ha detto un anonimo dopo il 1945 – è colui il cui Paese è stato occupato da stranieri”. Era l’unica grande utopia rimasta in vita dopo la fine della II guerra mondiale e per quanto imbrigliata all’interno del progetto funzionalista, dei piccoli passi, era sembrato per un momento, dopo l’unificazione monetaria a cavallo tra XX e XXI secolo, potesse dar vita a una vera unificazione nella speranza che la politica avrebbe seguito l’economia. È stata un’illusione. Oggi possiamo solo constatare che in tutte le politiche mondiali c’è un deserto che si chiama Europa.  Questa “Europa dei governi” sembra così politicamente sterile che, al momento, è l’azione di un organo tecnico, la Banca Centrale Europea, ad essersi sobbarcato il compito di salvare la vita e della dignità di milioni di europei.

Però, per non crogiolarsi nel vittimismo, dobbiamo pensare che tutto ciò che sta accadendo – a cominciare dai tempi lunghi di applicazione di politiche economiche incerte – non sia una questione di volontà o di insensibilità, di tedeschi, olandesi e via “nordificando”. La triste verità, al netto delle giuste considerazioni di Pietro Manzini su “ParliamoneOra” del 14 aprile, è che per agire come noi stiamo chiedendo, cioè con spirito di solidarietà, spalmando tra tutti i membri dell’Ue il costo del disastro economico, bisognerebbe far parte di una comunità che al momento semplicemente non esiste.

Siamo un’unione, non una comunità. Siamo condòmini all’interno dello stesso stabile, non una collettività o una famiglia. Se chi abita sotto il nostro appartamento chiede, per far fronte a una situazione difficile, un sostegno all’amministratore, noi daremo l’assenso solo in cambio di garanzie di restituzione, se invece quelle persone fossero una parte della “nostra” comunità, il problema non si porrebbe neppure. Allora, invece di prendercela con olandesi o tedeschi, rinfocolando i soliti reciproci stereotipi nazionalisti, perché non c’interroghiamo su cosa abbiamo fatto per far nascere quella comunità, vale a dire gli Stati Uniti d’Europa? Con chi ce la dobbiamo prendere se l’Europa al momento è solo un’unione, soprattutto economica, tra governi nazionali e come tale soggetta alle leggi e alle gerarchie di valori dettate dal mercato a cui gli “altri” si appellano legittimamente? Come mai, dopo molti anni, nonostante la presenza di tutti gli organi che prefigurano l’esistenza di una nazione (Parlamento, Esecutivo, Tribunale), dipendiamo ancora dalle volontà dei governi nazionali che, in quanto tali, non possono che favorire interessi nazionali? Perché non siamo riusciti a trasformare il rospo intergovernativo nel principe azzurro nazione federale? Cosa ha fatto l’Italia, negli ultimi anni, per dare una spinta in questa direzione? Perché nel Parlamento europeo, accanto agli avatar delle famiglie politiche europee, non esiste una famiglia di “federalisti unitari”? E perché Altiero Spinelli continua in modo forse un po’ ipocrita a essere ricordato nelle parate e nelle celebrazioni, se la sua idea è morta? E se non è morta, perché ce ne allontaniamo sempre di più?   Il timore è che il virus per quanto potente non riuscirà a scalfire la corazza dell’Europa dei governi.

La pandemia da un lato ha messo in evidenza come effettivamente siamo un ‘one world’ dato che la diffusione del morbo non si fa ostacolare dai confini geografici o dalle differenze di razza, etnia, classe e genere. Dall’altro, ha mostrato l’importanza della nazione, l’unica scialuppa di salvataggio che, in un modo o nell’altro, ha cercato, nel nostro momento più buio dal 1945 a oggi, di fare il suo dovere, quello di disciplinare e rincuorarci. La nazione – strepitosa e rivoluzionaria invenzione che nel bene e nel male da più di due secoli costituisce l’orizzonte del progetto politico occidentale – è un prodotto storico, non un dettato divino, da cui sarebbe necessario partire per costruire, anche in mare aperto e agitato, una scialuppa più adeguata ai tempi, una nuova comunità di destini con cui continuare a navigare nel gurgite vasto della contemporaneità.

Questo testo è stato pubblicato giovedì 30 aprile 2020 sul sito www.parliamoneora.it, associazione di docenti, ricercatori e ricercatrici dell’Università di Bologna nata per mettere a disposizione della collettività competenze e saperi mediante interventi pubblici sui temi della contemporaneità.


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