Riaprire i punti nascita in Appennino per una sanità da serie A

Nascere in montagna ha un fortissimo valore simbolico: Venezia, come Porretta, Borgotaro, Castelnovo ne’ Monti e Pavullo, ha meno di 500 parti all’anno, ma il Veneto non ha mai osato chiudere la sua sala parto, perché vivere la Serenissima significa preservare mondi che non devono scomparire. Bene fa Bonaccini a riaprire le sale parto montane. Il sistema richiede solo organizzazione. Del resto il presidente, salvo rare eccezioni, proprio in quelle zone al voto di gennaio non ha toccato palla

di Angelo Rambaldi, giornalista


La volontà espressa da Stefano Bonaccini di voler riaprire i punti nascita negli ospedali dell’Appennino, pur mantenendo criteri di sicurezza, ha riaperto un dibattito che, a mio avviso, trascura un aspetto molto importante… In premessa vorrei ricordare: la morfologia dei nostri Appennini non è simile alle Ande o alle montagne dell’Alaska. Altro aspetto: non è vero che, come leggo ogni tanto da qualche parte, da un lato ci sono i “professori” che si occupano della sicurezza delle partorienti e dall’altro gli ottusi montanari che richiedono deroghe impossibili.

Qualche tempo fa, mentre anche in Lombardia era aperto il dibatto sui loro punti nascita montani, lessi sul Corriere di Milano un’intervista al presidente dei ginecologi lombardi, il quale a precisa domanda rispose che se la distanza di tempo automobilistico-ambulanza su strada fosse stata superiore all’ora di tempo, il punto nascita montano doveva rimanere aperto. Chiarendo che in certe stagioni, e comunque spesso, in montagna l’elicottero non è utilizzabile.

Per informazione, i punti nascita in questione nella nostra regione sono: Porretta Terme, oggi Alto Reno Terme (Bologna), Pavullo (Modena), Castelnuovo né Monti (Reggio Emilia), Borgo val di Taro (Parma). Qui occorre fare una osservazione per far capire come la vicenda abbia aspetti strani. Mentre i tre punti nascita montani di Pavullo, Castel nuovo, Borgo val di Taro sono stati chiusi un anno e mezzo fa, a Porretta invece, per la volontà ferrea dell’Asl, della Regione e della Giunta di Palazzo d’Accursio, il punto nascita fu chiuso quattro anni fa. Fra l’altro Porretta, rispetto ai tre punti nascita montani della regione, ha il distanziamento maggiore dalla città, 60 chilometri.

In quella occasione, fra la rabbia e la costernazione della popolazione valligiana, fu portata via l’attrezzatura del parto in acqua, di cui l’ospedale di Porretta era dotato, e casualmente fu portata alla ginecologia del Maggiore. Vengo al punto centrale: per le popolazioni montane essere privati della possibilità di nascere in montagna ha una fortissima valenza simbolica (in questo caso negativa), ed è subita come una volontà politica che, anziché facilitare e premiare chi rimane in montagna, di fatto offre una sanità di serie B. Poi vi sono pure ragioni poco nobili e piuttosto disinteressate alla famosa “sicurezza”. Tempo fa a Porretta andò in pensione il pediatra, c’era una graduatoria aperta per chiamare il sostituto, nessuno in graduatoria accettò l’incarico a Porretta, fino a che si arrivò all’ultima in graduatoria.

Cito anche (fra i comportamenti “scientifici” poco virtuosi) l’esempio di Venezia, la città storica che oggi ha poco più di 50.000 abitanti: anche il suo punto nascita era sotto la soglia dei 500 parti e quindi, secondo l’ortodossia, doveva essere chiuso. Con qualche affinità con i punti nascita montani, vietare di nascere a Venezia avrebbe avuto effetti assai gravi per la popolazione che “resiste” ad abitare la “Serenissima”. Per cui la Regione Veneto, in accordo con il sindaco della città lagunare, decise che il punto nascite doveva rimanere aperto. Cosa accadde? Guarda un po’, accadde che le associazioni dei ginecologi e dei pediatri ricorsero al Tar, il tribunale amministrativo regionale, per chiederne la chiusura. Ma il Tar dichiarò la richiesta irricevibile perché la potestà decisionale in materia è della Regione. Allora che fare? Fra le varie ipotesi ve ne è una: mica me la sono inventata io, ho i miei consulenti. Intanto, come del resto oggi, le partorienti della montagna vanno seguite nel loro percorso pre-parto. Poi, in vista del parto, dall’ospedale di città salgono le valli ginecologi neonatologi (l’attrezzatura tecnica degli ospedali montani va aumentata), trasferimenti a rotazione periodica, professionisti supportati da giuste indennità economiche aggiuntive.

A una probabile obiezione degli “apocalittici”, faccio osservare che nella nostra regione, dove le distanze non sono poi da viaggio biblico, allora per “motivi di sicurezza” dovremmo chiudere anche tutti gli ospedali che non hanno la rianimazione o una vera terapia intensiva. A questo punto rimarrebbero aperti solo gli ospedali nei capoluoghi di provincia.

Infine una osservazione un po’ prosaica: alle ultime elezioni regionali, salvo qualche eccezione, Stefano Bonaccini nella fascia medio alta dell’Appennino non ha toccato palla. Troppa palla al centro.


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