Che gusto il “cibo delle streghe” di un’osteria al Pratello

Grazie a un mercante immigrato in città da Codogno a metà ‘700, la patata, fin allora schifata perché proveniente dall’oscurità, fa il salto di qualità e dalle mangiatorie del bestiame finisce sulle tavole: non più tubero bitorzoluto come la lebbra ma addirittura “pomme de terre”, insomma una mela anche se colta scavando. Pietro Maria Bignami ne produce in quantità nei possedimenti a Pontecchio e Moglio e con un opuscolo che raggiunge lo scopo riesce a sdoganarla. Da allora ci si fa un gran pane e tante altre leccornie

di Giancarlo Dalle Donne, archivista


È vero, nelle osterie della “Bologna dei taglieri” si mangiano sempre le stesse cose, a base di affettati. Io invece (essendo vegetariano) preferisco consumare il “cibo delle streghe”, in un’osteria del Pratello: sotto forma di pane, appunto, di patate. È possibile, è plausibile che lo mangi con più gusto perché ne conosco la storia, le origini, le vicende? Credo di sì.

Ma perché la patata era definita “cibo delle streghe”? Originaria dell’America del Sud, venne introdotta in Europa dagli spagnoli a metà ‘500. In Italia la sua coltivazione iniziò in Toscana e nel Veneto ai primi del ‘600, ma cominciò ad affermarsi solo a fine ‘700, a fatica. Perché la patata aveva due sfortune: cresceva sotto terra e aveva una forma bitorzoluta. Sotto terra, nell’oscurità? Impossibile, è il cibo delle streghe! Forma bitorzoluta? Ricorda le escrescenze della lebbra!

Come fare allora per rivalutarla? Beh, per esempio modificandole il nome: non patata ma “mela di terra” (pomme de terre). La mela era rassicurante, anche se i suoi inizi non furono certo positivi: frutto del peccato nel paradiso terrestre, peggio di così…

Poi però la sua popolarità aumentò nel corso dei secoli, con tantissimi riferimenti sparsi, nello spazio e nel tempo: la Grande Mela (New York), Guglielmo Tell, la mela di Newton, la mela di Biancaneve e di Turing, quella di Paride e Afrodite, e pure nei detti popolari: “una mela al giorno toglie il medico di torno”. E ancora, ai giorni nostri: Apple Record (Beatles), Apple Inc. (computer), e anche “Chi Vespa mangia le mele” (chi non se lo ricorda?)

E la patata? Anche lei, dopo un inizio difficile, venne rivalutata. Nella pittura: da Arcimboldo a “I mangiatori di patate” di Van Gogh; nella letteratura: dall’ Ode alla patata” di Pablo Neruda fino alla poesia “Le patate” di Beatrice Zerbini; poi “My name is potato”, cantata da Rita Pavone nel 1977, con animazione di Guido Giannuli per lo Studio Bruno Bozzetto Film. E nei proverbi popolari: “Fritta, arrosto oppur lessata, benedetta la patata”.

Qualcosa di simile per la pesca e la prugna, o per il ravanello? No. Va beh, questa era una digressione.

E il contributo del codognese? Succede che fino agli ultimi decenni del ‘700 la patata era solo alimento per bestiame, e i contadini non erano molto propensi a utilizzarla per autoconsumo. Lo strapotere del mais, sotto forma di polenta, era inattaccabile. Ma in tempi di carestia anche la patata poteva avere un suo perché, anche perché non procurava la pellagra. E qui entra in scena Pietro Maria Bignami, “onesto e ricco mercante” e agronomo, originario di Codogno (tristemente nota di questi tempi), che nella seconda metà del ‘700 si trasferì in città e divenne cittadino di Bologna. Arriva dalle nostre parti preceduto, a fine ‘600, da un parente di Codogno, il mercante Gianangelo Belloni, che costruisce un palazzo in via de’ Gombruti, e gli apre la strada.

Entrambi hanno possedimenti nella montagna bolognese e qui (a Pontecchio e Moglio, attuale comune di Sasso Marconi), negli anni ’70 del ‘700, Bignami inizia a sperimentare la coltivazione del tubero. Non solo: nel 1773 pubblica a Bologna un opuscolo, dal titolo Le patate, con lo scopo di promuoverne la diffusione. Anche grazie a lui, e all’interessamento del cardinale Carlo Oppizzoni, in seguito alla grande carestia del 1816, il tentativo cominciò a dare i suoi frutti: nel giro di pochi anni si passò, nel bolognese, dalle 40.932 libbre prodotte nel 1820 a 1.241.828 nel 1850. E si arriva al primo utilizzo alimentare, il pane di patate. Bignami ce ne racconta la ricetta:

Per gli uomini se ne fa ottimo pane con metà farina di formento, e metà di esse, preparandosi come segue. Si fa il lievito con la farina di formento, al quale si aggiungono le patate cotte a lesso in acqua, dopo levatane la pellicola, indi pestate in mortaio s’impastano col medesimo lievito, e col resto della farina, non mettendovi acqua, servendo d’acqua la loro umidità, e ben impastate colla farina, se ne fa il pane”.

Ma anche frittelle, bignè, tagliatelle, o “cotte sotto la cenere”. Pellegrino Artusi, a fine ‘800, aggiunse altre ricette. Infine, le patate fritte.

E allora, buon appetito! E possibilmente, non mangiate pezzi di cadaveri di animali morti, nutritevi piuttosto del “cibo delle streghe”.

In copertina: I mangiatori di patate, Vincent van Gogh, 1885 (Van Gogh Museum, Amsterdam)


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