Quella volta che cadde il muro di Bologna

Non servì la rivolta come a Berlino. Il 27 giugno ‘99 non furono i picconi ad abbattere un potere che sembrava eterno: fu il voto popolare. «Non sono io che passo alla storia, è il fatto a essere storico»: Guazzaloca quasi si schermì in quel momento che lo consegnava ai posteri. Nulla fu più come prima. Impedire che Salvini metta le mani sulla città vale un impegno corale, senza quella puzza sotto al naso che 22 anni fa consentì ai fascisti di gridare “Duce Duce” in piazza Maggiore

di Giampiero Moscato, direttore cB


Giorgio Guazzaloca. Chi era costui? E Che cos’è la memoria? Non è solo il ricordo di qualcosa che accadde. È lo strumento per prevedere che cosa accadrà. O, almeno, per provarci. Sulla base dell’esperienza. Dell’empirismo. Dei corsi e ricorsi storici. Le storie vissute possono essere utili per le storie che verranno. Non è solo la stampa, bellezza! (una buona stampa, sia chiaro): è l’evoluzione in sé che si nutre del ricordo.  E tu non ci puoi fare niente… niente.

In un tempo che brucia tutto nell’istante in cui si avvera, sembriamo essercene scordati: alla faccia della memoria. Meglio non pensare a cosa sia l’amnesia 2.0. La 5.0, poi… Solo poco tempo fa l’opinione pubblica premiava i custodi del tempo trascorso. Gli storici. I cronisti. I testimoni. Oggi chi prova a raccontare cosa sta avvenendo usando la lente di ingrandimento fornita da quello che era successo prima viene considerato armamentario desueto. Tutto accade ora, maledettamente e subito. Al macero gli amanuensi. Non servono. «So tutto io, adesso c’è il web».

Il muro di Bologna è già caduto. Non servirono i picconi e la rivolta come a Berlino. Il 27 giugno 1999 non fu il martello pneumatico ad abbattersi sulle muraglie di un potere che sembrava eterno. Fu il voto popolare. Pacifico. Imprevisto? Sì. Ma democratico.

«Non sono io che passo alla storia, è il fatto a essere storico». Era sudato, stremato, disfatto dalla fatica dopo lo stress di quei giorni e la bolgia che si era scatenata a Palazzo d’Accursio in seguito alla sua elezione. Guazzaloca quasi si schermì in quel momento che lo consegnava ai posteri, riducendo il suo ruolo a semplice testimone di un evento che avrebbe cambiato molte cose, non solo in città. Non fu il crollo dell’impero sovietico, certo. Però fu la fine di una supremazia culturale e politica che sembrava eterna. Nulla fu più come prima.

Quella salita verso il Palazzo fu dura, faticosa, surreale: chi c’era ricorderà. Guazzaloca, che un potere miope aveva provato a ridimensionare nei ruoli precedenti, avanzava senza toni trionfanti – semmai era stravolto e silente – sulle rampe dello scalone attribuito al Bramante, quello che in altre epoche si saliva a cavallo. Fuori, in piazza Maggiore, c’era una somma di tripudi diversi: chi gridava «chi non salta comunista è», chi ironizzava con un buffo «Prodi libero», chi diceva che forse solo con lo scudetto di Bernardini si era provata tanta gioia. C’era anche chi debordava con i saluti romani e le grida «Duce Duce». Roba mai vista e sentita nei 54 anni precedenti sul “crescentone”. Un conto è l’alternanza sinistra-destra. Un altro la negazione della storia e della tragedia mussoliniana.

Guazzaloca era tutt’altro che un fascista. Però con lui cadeva il baluardo della via italiana al socialismo: eccessi indubbi a parte – soprattutto nel dopoguerra – certamente la più umana, la più democratica della storia. Tra chi gioiva non c’erano solo liberali di destra e conservatori. C’erano anche gli adepti di Benito. Suo malgrado (suo di Guazzaloca), si deve aggiungere per correttezza.

Si dice che con i se e con i ma non si fa la storia. Ma è piuttosto evidente che senza i litigi nella Ditta e senza le divisioni e i distinguo a sinistra Silvia Bartolini avrebbe vinto al primo turno. E senza l’astensione (l’input della componente dura e pura fu di andare al mare, tanto «ce l’avrebbe fatta lo stesso») avrebbe passato agevolmente il secondo turno. 

La destra questa volta sembra aver scelto di non spendersi per nulla in questa sfida. Fabio Battistini, in campo da mesi, ha avuto solo di recente il via libera da Matteo Salvini, cui si sono accodati obtorto collo Fdi e Fi. È evidente che danno per persa la battaglia: il loro scopo è smorzare l’interesse per la sfida. Meno gente andrà a votare, meno limpida sarà la vittoria di Matteo Lepore, come Stefano Bonaccini quando al primo mandato fu eletto da una minoranza di corregionali. E magari neppure scontata come appare. 

L’esperienza del 1999 deve far riflettere: nulla è assodato. Non c’è nessun muro da difendere. Ma impedire che Salvini metta le mani su Bologna vale un impegno corale. Votare in massa servirà a dare forza a Lepore e al centrosinistra: poi si potrà e si dovrà pretendere che siano attenti ai diritti e al progresso. Costruiamo quel poi. Senza troppa puzza sotto al naso.


2 pensieri riguardo “Quella volta che cadde il muro di Bologna

  1. Ottima analisi, per compiutezza bisogna dire che nel 1999 la sinistra aveva due candidati: Bartolini che ottenne il 48,8% e Zamboni che ottenne il 10,4%. Non ci fosse stato lui Bartolini diventava sindaco al primo turno. Poi è il centrodestra che ha tutto l’interesse a che vinca il centrosinistra, con il quale in 75 anni ha sempre fatto lucrosi affari. Bologna è la capitale mondiale dell’inciucio, perché cambiare?

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