Viralità tossiche

Se non si può chiedere a tutti di fare controguerriglia semiologica nel tempo libero, bisogna dire che un po’ di attenzione in più non guasterebbe. Il rischio in cui si incappa altrimenti è quello che il proprio messaggio, per quanto condivisibile e assennato, venga svilito da un “prodotto culturale” non all’altezza. Un rischio che ho visto palese nell’intervento di Emily Clancy a “Pace Proibita”, lo show di Michele Santoro andato in onda lunedì scorso

di Pier Francesco Di Biase, caporedattore cB


«È una vergogna! – mi ha gridato tutta concitata un’amica l’altra sera, davanti a una birra in Pratello –  Non si discute abbastanza delle conseguenze di questa guerra! Non c’è dibattito, né consapevolezza!». Eppure, ho ribattuto io, da tre mesi a questa parte a me pare proprio che non si parli d’altro. Semmai il problema è come…

Misteri della viralità. O forse suoi assunti di base: troppe informazioni equivalgono a nessuna informazione, e la ridondanza del messaggio porta inevitabilmente a una crisi di rigetto. Aggiungiamoci la mescolanza di generi e la frittata è fatta: virgolettati, immagini, audio estrapolati dal contesto e rilanciati nel Metaverso, che infiammano le chat di Whatsapp e intasano le bacheche social, lasciando noi poveri sociopatici senza altra via d’uscita che non sia nascondersi al buio sotto la doccia, maledicendo il destino.

A complicare ulteriormente le cose ci pensa la dittatura dell’opinione, fenomeno che con l’arrivo della primavera pensavamo archiviato insieme alle marce no vax e che invece si è ripresentato in tutta la sua virulenza con lo scoppio del conflitto ucraino. E dunque, al grido bipartisan di “Giornalisti servi”, via libera di nuovo agli “io penso”, “io dico”, “io sono”, puntualmente seguiti da una ferrea presa di posizione sul binario dei pro e dei contro, degli atlantisti e dei putiniani, dei pacifisti e dei guerrafondai. Tertium non datur e chi prova a tirarsene fuori, di norma, riceve uno sguardo attonito accompagnato da una nota di biasimo, quando non da un’accusa esplicita di disfattismo.

La conseguenza più grave di un simile atteggiamento, del resto praticato in Italia fin dai tempi dei Guelfi e dei Ghibellini, risiede nell’inevitabile banalizzazione che ne scaturisce. Perché se per confermare quel che già penso e dare addosso alla controparte mi accontento di fare un puzzle di considerazioni superficiali, a perderci è inevitabilmente il messaggio, che si degrada fino a diventare una semplice dichiarazione d’appartenenza. Con buona pace della condivisione di informazioni con i miei simili, che poi sarebbe il fine ultimo per il quale si comunica.

Certo tutto questo bailamme potrebbe riassumersi in quel vecchio adagio che recita: “La forma è contenuto”. Altrettanto importante, però, è ricordarsi di guardare ogni tanto anche il contenitore.

E se non si può chiedere a tutti di fare controguerriglia semiologica nel tempo libero, bisogna dire che un po’ di attenzione in più non guasterebbe. Il rischio in cui si incappa altrimenti è quello che il proprio messaggio, per quanto condivisibile e assennato, venga svilito da un “prodotto culturale” non all’altezza. Un rischio che ho visto palese, ad esempio, nell’intervento di Emily Clancy a Pace Proibita, lo show di Michele Santoro andato in onda lunedì scorso.

A un’utenza dal gusto progressista, le parole della nostra vicesindaca non possono che risultare gradite. Ma inserite in un contesto simile, tra un Moni Ovadia che inveisce contro i mass media e uno struggente Marco Tarquinio che parla di guerra e denatalità quasi che fossero in simbiosi, ne escono inevitabilmente depotenziate. Per non parlare poi del canale utilizzato per la loro diffusione, quella ByoBlu di Claudio Messora che fin dalla nascita ha avuto il merito – per dirla con Andrea Scanzi – di essere «la suburra del complottismo più torbido e compiaciuto».

Per nostra fortuna la decontestualizzazione di cui sopra vale pure all’inverso, e un veloce lavoro di editing consentirà alle parole di Clancy di preservare il loro valore, lontane da un contenitore potenzialmente tossico. A noi altri, invece, resta il compito di fare attenzione, insieme alla dieta, anche alla fonte cui decidiamo di dare fiducia.

Per interpretare la realtà che la circonda, l’informazione si nutre di poche semplici parole: chi, cosa, quando, dove e perché. Ma affinché sia effettivamente un’informazione, all’utente è richiesto lo sforzo in più di utilizzare le stesse parole per domandarsi, oltre all’identità dell’autore, anche la natura del mezzo attraverso il quale si sta informando. E questo non tanto per fare mero esercizio di scetticismo, quanto per una questione di elementare buonsenso.

Perché la verità, persino laddove sia rivelata, è soltanto una versione dei fatti più convincente di tutte le altre.


Un pensiero riguardo “Viralità tossiche

  1. Non capisco il significato dell’articolo del caporedattore di Cantiere Bologna. Criticare pesantemente Santoro? Non è degno di quello che sembrerebbe tentare di essere una nuova testata intelligente.
    C’è di molto peggio di Santoro.

Rispondi