Dopo il 25 settembre, a Bologna sarà richiesto lo sforzo di mantenere la rotta tracciata. E di farlo, come direbbe Santori, contaminandosi con altre esperienze affini, italiane o internazionali che siano
di Pier Francesco Di Biase, caporedattore cB
«Inferno o Cielo, cosa importa? Discendere l'Ignoto per trovarvi, nel fondo, il nuovo»
(Charles Baudelaire, Il viaggio)
Scriveva Baudelaire, a chiusura dei suoi Fiori del Male, che «i veri viaggiatori partono per partire» e senza sapere il perché. Io invece, che evidentemente non sono un bravo esploratore del mondo, non ho mai potuto fare a meno di cercare una risposta a quella fatidica domanda. Il risultato di questa quête è spesso deludente, di certo mai definitivo: ma tant’è, con l’imperfezione dobbiamo farci i conti tutti. Quel che più importa è non smettere mai di cercare.
Sta di fatto che mentre sorseggiavo un caffè sulle rive placide del Ljubljanica, tra salici accarezzati dal vento e sciami di turisti appiedati o “ciclabili”, nella mia ingenuità egoriferita ho creduto che l’Universo, portandomi in quel posto, avesse voluto regalarmi per un istante la possibilità di osservare, con sereno disincanto, qualcosa di molto simile a ciò di cui si discute qui.
Non è mia intenzione riprendere il pur interessante dibattito sul “modello Bologna”, che ha imperversato su queste pagine per tutto agosto. Ho già espresso i miei dubbi allora, e le successive cronache elettorali non hanno – ahimè – potuto far altro che confermarli. Tuttavia, sono rimasto parecchio intrigato dal contributo del consigliere Detjon Begaj. Un testo “definitivo” – come sa essere spesso e volentieri il suo autore – e a mio modesto avviso esattamente centrato nell’indicare, come elemento determinante per un’analisi efficace, il concetto di “anomalia”.
Anche il piccolo centro storico di Lubiana, se rapportato al resto della città, può essere considerato anomalo, forse persino alieno: una felice isola pedonale, multietnica e dedicata a cultura e turismo (c’è persino un piccolo festival internazionale di cinema in piazza), che ha saputo assorbire – non senza una discreta dose di quello “scontro” evocato con nostalgia da Begaj – esperienze autonome come il Metelkova, centro sociale nato dall’occupazione di una ex caserma, nel quartiere universitario della capitale slovena.
Tutto bello, tutto interessante e, per occhi e orecchie bolognesi, anche tutto molto familiare. Il problema, come accennato, è il rapporto con il resto della città, rimasta invece grigia, sporca, povera e trafficata come la prima volta che la vidi, ormai quasi venticinque anni fa.
Perché il limite di ogni anomalia sta proprio nella sua rarità: una caratteristica che la rende inevitabilmente esclusiva, lontana e riservata a pochi. E se la sfida è, come ha giustamente ricordato Begaj, quella di “aprire” il governo della città (e la coalizione che ne è titolare) a esperienze “altre” e desiderose di cambiamento, bisogna anche riconoscere che, almeno osservando la distribuzione geografica del voto alle ultime amministrative, nemmeno Coalizione Civica è riuscita in questo intento, contribuendo piuttosto a incanalare verso l’esperienza istituzionale un desiderio di radicalità già presente in alcuni specifici strati del tessuto cittadino. E non certo i più popolari.
Ora, qualcuno potrebbe pensare che la conclusione ovvia di questo scritto sia l’ennesima, autoreferenziale, rimembranza della cosiddetta dialettica “centro-periferia” e di altre simili amenità hegeliane. Ebbene, nello scontro in atto tra progresso e conservazione io non credo affatto che si arriverà a una sintesi: vincerà la fazione che avrà più mezzi (e non per forza più uomini) per cavalcare i cambiamenti epocali che la nostra civiltà sta affrontando. E vincerà, soprattutto, quella parte che saprà individuare le radici più profonde e più vere di questo nostro sistema tanto evidentemente diseguale.
In questa lunga, carsica lotta di attrito, la capacità di resistere conterà molto più di quella, tanto in voga, di sapersi adattare. Un principio valido anche per il governo di Bologna, a cui è richiesto lo sforzo, dopo il 25 settembre, di mantenere la rotta tracciata. E di farlo, come direbbe Santori, contaminandosi con altre esperienze affini, italiane o internazionali che siano.
L’alternativa è proprio quella “fortezza assediata” evocata da Begaj: un angolo più o meno verde di finto Paradiso, impermeabile chissà per quanto al cupo grigiore che lo circonda. Una condizione che non mi auguro affatto poiché, da proprietario di cane, so bene quanto sia facile, troppo presi da sé stessi, ritrovarsi in un attimo soli su una striminzita lingua di terra, sopraffatti dal rumore tossico delle auto e con un sacchetto pieno di merda in mano.
Un destino infame, non dissimile da quello di Lubiana e che potrebbe toccare in sorte anche a questa città, se davvero rinunciasse a imporre il suo esempio in nome di una, pur affascinante, splendid isolation.
Photo credits: Eugene Kuznetsov
Un pensiero riguardo “I salici di Lubiana”