Paolo Bolognesi: «La pista palestinese è falsa, ma i depistaggi continueranno»

Intervista al presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto 1980, tra inquinamenti delle indagini vecchi e nuovi, revisionismi e implicazioni politico-istituzionali della strage di cui si sa ancora poco

di Pier Francesco Di Biase, caporedattore cB


Una verità celata, un segreto indicibile, sono incompatibili con la giustizia come con la democrazia. Per questo esiste la Memoria, che pure ha gambe fragili e inciampa spesso, soprattutto laddove ci sia più di qualcuno interessato a sgambettarla. Un destino, e questa città lo sa bene, che per lungo tempo ha gravato sulla strage del 2 agosto 1980.

Una strage di cui oggi, grazie alla caparbietà di alcuni magistrati e dei familiari delle vittime, possiamo dire di conoscere molto, ma non ancora tutto. Quello che ancora manca ci è stato sottratto in larga misura utilizzando come strumento principe il depistaggio. Il più popolare, senza dubbio, è quello che vuole militanti palestinesi dietro l’esplosione della bomba che, quel giorno, uccise 85 innocenti. Secondo questa ipotesi, la strage della stazione sarebbe stata realizzata contro il tradimento del cosiddetto “Lodo Moro”, un accordo segreto tra Italia e palestinesi per tenere il nostro paese lontano dagli attentati. La “pista palestinese” ha tenuto banco per anni e, nonostante le archiviazioni e la desecretazione dei documenti, viene ancor oggi evocata da più parti per i più disparati interessi.

Per fortuna, c’è ancora qualcuno che si oppone a questi tentativi e che lavora affinché la verità sulla strage, prima o poi, venga definitivamente raggiunta. È il caso di Andrea Palladino, giornalista di cui Tpi ha recentemente pubblicato un’inchiesta sui documenti ufficiali che smentiscono questa storia (qui). Ed è il caso, a maggior ragione, di Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione dei familiari delle Vittime del 2 agosto, a cui abbiamo voluto chiedere un parere in proposito.

L’inchiesta di Andrea Palladino sembra mettere la parola fine alla teoria della “pista palestinese”, che la vostra associazione ha sempre combattuto considerandola un depistaggio. Pensate anche voi che questa storia sia definitivamente archiviata?

Pur non avendo noi ovviamente prove all’inizio, abbiamo sempre considerato questa ipotesi non credibile. Del resto, tanto per la strage del 2 agosto come per Ustica e altre stragi, i tentativi di depistaggio hanno sempre cercato di sviare le indagini paventando piste internazionali. Addirittura la politica si prestò a questo gioco, con la famosa commissione parlamentare “Mitrokhin” che io definii “depistaggio istituzionale”, cosa che mi valse anche una querela. La commissione si concluse con una relazione di maggioranza che non fu votata nemmeno dalla stessa maggioranza, in quanto conteneva conclusioni, diciamo così, azzardate.

I documenti segreti accennati nell’articolo di Palladino, resi accessibili ma non divulgabili all’epoca del governo Renzi, li lessi anche io in quanto membro della Commissione Moro. Anche in questo caso, come per il 2 agosto e Ustica, non c’era nessun elemento che potesse confermare il coinvolgimento di militanti dell’Olp o del Fronte popolare di liberazione della Palestina nella vicenda. Naturalmente, non essendo divulgabili, ciascuno poteva romanzarne il contenuto come gli pareva. Per fortuna la direttiva Draghi li ha desecretati completamente, rendendo perfettamente chiaro che la pista palestinese fu un depistaggio a tutti gli effetti.

Chi aveva interesse a divulgare la falsa pista allora, e chi l’ha eventualmente ancora oggi?

Da prima della strage si lavorava per costruire una pista internazionale e confondere gli inquirenti. Il primo pagamento di Licio Gelli a Mario Tedeschi, direttore de Il Borghese e senatore del Msi iscritto alla P2, affinché cominciasse a mettere in piedi la strategia è del 16 febbraio 1979.  Anche in virtù di questo per molto tempo noi familiari delle vittime siamo stati sopportati, più che supportati, da una grossa fetta di potere politico e mediatico.

Articoli come quello di Palladino sono fondamentali per bloccare sul nascere quei tentativi che, ancora oggi, vengono messi in piedi per sviare i processi, in particolare da parte di Gilberto Cavallini e Paolo Bellini, che nell’ultima intervista ha tirato ancora una volta in ballo la pista palestinese. Anche questi tentativi, come i precedenti, non avranno nessun risultato.

Lei ripete spesso che «siamo vicini alla verità» sul 2 agosto 1980. Pensa che questo sia davvero possibile nel breve periodo o teme nuovi tentativi per sviare i processi ancora in corso?

Ritengo che questi tentativi di depistaggio continueranno ancora a lungo, così come i revisionismi. Teniamo conto che recentemente abbiamo indetto una conferenza stampa proprio per ostacolare la formazione di una commissione di inchiesta parlamentare sugli “anni di piombo”, richiesta dal deputato di FdI Fabio Rampelli. La potenza di fuoco che abbiamo contro è notevolissima, per fortuna ci sono giudici che vogliono accertare fino in fondo la verità, cosa che peraltro ci permetterebbe di valutare davvero lo stato della politica italiana. Anche se la maggior parte dei politici di rilievo dell’epoca sono morti, credo che abbiano ancora degli addentellati tanto tra le fila del potere politico quanto negli apparati di pubblica sicurezza e nei servizi segreti. Anche per questo, temo, sarà molto dura poter dimostrare che una stagione politica è stata compromessa da intrecci impropri tra istituzioni, massoneria deviata e criminalità organizzata.

A proposito di criminalità organizzata, lei ritiene che la messa in discussione di elementi cardine della legislazione antimafia e antiterrorismo come il 41-bis possano indebolire le inchieste e i processi in corso sulla lunga stagione dello stragismo italiano?

Per quanto mi riguarda, pur non conoscendo nel dettaglio le vicende di cui si dibatte in questi giorni, ritengo la legislazione vigente assolutamente legittima laddove ci sia un’effettiva necessità di tutelare la sicurezza pubblica. Faccio notare che nel caso di Mambro e Fioravanti queste misure non solo non esistevano ancora, ma si fece di tutto per farli uscire anzi tempo di galera: innanzitutto cercando di farli passare come assassini “semplici” e non come terroristi stragisti, e in seconda battuta con la leva economica, come sembra dimostrare l’intercettazione in cui Gennaro Mokbel riferisce di aver pagato oltre un milione di euro per «tirarli fuori». All’epoca ritenemmo che questo dovesse far drizzare le orecchie a più di qualcuno, ma nessuno se ne interessò. Questo secondo me fa il paio con la trascuratezza con cui vennero analizzate le posizioni di molti politici in quel periodo.

Per arrivare alla verità il tassello mancante è dunque il livello politico?

Sì. Per raggiungere la verità bisogna arrivare ai politici. Tutti i vertici dei servizi nominati dal governo nel 1978 erano iscritti alla P2 di Gelli. Sembrano cose incredibili oggi, eppure questa gente ha avuto questi incarichi nell’epoca che ha visto tra gli altri il sequestro Moro, l’omicidio di Piersanti Mattarella e del giudice Mario Amato, la strage del 2 agosto 1980.

Quindi secondo lei dietro quella che viene comunemente definita “strategia della tensione”, così come dietro i depistaggi che hanno sempre accompagnato i delitti più efferati di quella stagione, non può che esserci una mano istituzionale?

Se i servizi segreti tengono nascoste delle cose, non lo fanno per loro ma perché qualcuno gli dice di farlo. E chi glielo dice di solito sono i politici. Oltretutto, che la pista palestinese fosse una favola non potevano non saperlo anche i servizi e quei politici che diedero vita alla commissione Mitrokhin. Dietro la strategia della tensione, che per certi versi non è mai finita, c’è una responsabilità politica che prima o poi andrà chiarita. Bisogna lavorare sul grande potere della Memoria, unico antidoto capace di frustrare vecchi e nuovi tentativi di depistaggio.


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