Usciamo tutti insieme da questo incubo
di Andrea Femia, digital strategist
Sveglia. Sono riposato e ho tutto il tempo prima di uscire di casa. Non c’è pericolo che io debba rinunciare a fischiettare le canzoni di Sanremo sotto la doccia. In ordine di podio. La colazione la salto così posso studiare un po’ e poi pronto che si inizia in Università. Il caffè lo berrò lì.
Sveglia. Ne avrò rimandate cinque, nonostante la luce del giorno entrasse tutta quanta sul letto. Ho dieci minuti per sbrigarmi; ieri sera ho fatto di nuovo tardissimo. L’Università chiama, il caffè lo berrò lì.
Sveglia. Chi l’avrebbe detto che mi sarebbe mancata la sveglia. Qui non sai quale sia lo stato dell’arte del cielo. Puoi immaginare che sia buio tetro o che ci sia una luce pazzesca. Per me sono le 3.00; sono da un po’ di tempo le 3.00, forse è il tempo che siano le 6.00. Lo decido io che ore sono, la cognizione del tempo la posso riferire alla salivazione, alla fame e allo stato dei segni sul corpo e sul volto. Invece di sedermi faccio finta di avvicinarmi a una finestra a scrutare qualcosa e perdermi nei pensieri. Ad esempio, quando l’elettricità ti attraversa il corpo noti qualcosa di molto strano. Come quando avverti un dolore nuovo in una zona del corpo dove nulla è mai accaduto prima. Moltiplicato per ogni singolo centimetro di carne e ossa.
Non c’è alcun dubbio che l’idea che abbiano scelto me per torturarmi non li rende molto intelligenti; sembrano simili a bestie private della loro natura di appartenenza al creato. E riavvolgo i pensieri per non perdere la lucidità e mantenermi saldo. Ho fiducia solo che possa fare il miracolo l’Italia. Me le immagino le scritte di chi non perde l’empatia: Liberate Patrick. Patrick libero. In loro ci spero sul serio.
Ancora, riavvolgo i pensieri e mi mantengo saldo. Saranno le 9.00. Non che cambi nulla, ma è dal principio dell’alba che aspetto di tornare all’Università. La routine mi salva. Il caffè lo berrò lì.
L’obbligo morale di non perdere l’empatia
Non è semplice affrontare il discorso senza provare a immedesimarsi in un qualcosa che non vorremmo mai vivere. Figurarsi quanto è difficile immaginare la situazione di chi vive in prima persona ciò che appartiene a una logica pertinente alla sconfitta di ogni buon valore. La tortura non deve essere molto dissimile dall’inferno, con la certezza che la prima è reale mentre l’inferno si spera sia solo un prodotto della paura.
Non è neppure semplice pretendere da tutti che questa situazione risvegli un’empatia ormai distrutta da anni di narrazione devastata da un linguaggio degradato. Eppure da questa pagina virtuale, un non luogo per definizione, serve ribadirne l’obbligo. Come se ci fosse una norma ad imporcelo. Dobbiamo provare a immedesimarci in chi vive questo dramma in modo tale da rendere chiaro a chi ci rappresenta che la nostra urgenza è che da questo incubo ne vogliamo uscire tutti. Non solo Patrick che ne è direttamente coinvolto.
Tutti noi che speriamo in uno Stato che sia in grado di farsi carico di una di quelle circostanze che definiscono e delineano i limiti della portata della dignità dello Stato stesso. Un’Italia che non abbia paura di affrontare con la dovuta fermezza istituzionale questo delirio di onnipotenza di chi immagina di poter fare esattamente ciò che vuole.
In un mondo ideale non esisterebbero le armi per gli eserciti, ma quello in cui viviamo è ben lungi dall’essere il mondo ideale. Non ci vuole un genio, ci vuole un po’ di coraggio.
Minacciateli seriamente di levargli le armi, ma davvero siamo a questo; che ve lo si deve dire? A cosa vi siete ridotti?
La nostra agenda
E voi che doveste leggere queste parole, scrivete qualcosa pure voi, scrivetelo sulle vostre bacheche, mandate mail ai giornali, mandatele ai ministeri, diventate voi stessi un’onda che non si possa ignorare. Sarà anche il tempo dei non luoghi, ma ci sono dei momenti in cui uno deve sforazarsi di dettare un’altra agenda.
Fottetevene di chi vi darà dei buonisti o degli illusi, non gli rispondete nemmeno se non con una risata. Tutto ciò che è rilevante dipende dall’intelletto che lo rileva. Stabiliamolo noi cos’è rilevante se non ne sono capaci loro.
L’Italia faccia tutto quello che può per liberare Patrick Zaki. Il caffè lo berremo lì, tutti insieme, quando sarà di nuovo qui.
Tutto coìndivisibile ma per chi ha un po’ di anni sulle spalle è facile vedere anche possibli scenari non proprio edificanti. Il fatto che lo stesso ragazzo non sapesse della denuncia nei suoi confronti fa ipotizzare che a qualcuno invece potesse servire non farglielo sapere e lasciarlo cadere in trappola. Ora i diplomatici e il governo possono essere messi sotto ricatto per ottenerne la liberazione. E la materia di scambio può essere un allegerimento della pressione sul caso Regeni. Senza voler far troppa dietrologia, non è difficile a chi convenga questo arresto. Gli stessi che lavoravano per togliere l’immagine di Regeni dalle piazze.