Alberto Aitini, attuale assessore alla Sicurezza della giunta Merola e soprattutto candidato alla successione, racconta la sua Bologna. Che l’ha accolto per l’università e l’ha convinto a rimanere per non lasciarla più. Intanto pensa di diventarne il primo cittadino. Per farlo se la dovrà vedere con il collega di partito e di giunta Matteo Lepore che ora conta anche sull’endorsement del loro capo. Vuole insomma la conta, ritenendo che il giudizio degli elettori possa essere favorevole a lui. Pensa, però, che il giorno dopo anche chi sarà battuto dovrà collaborare col vincitore. È convinto che le primarie di coalizione siano il sistema giusto per fare i programmi e per scegliere chi dovrà governare. Ma, se si vota a giugno, ritiene che non ci sarà tempo per consultare la base. Quanto alle alleanze, se proprio dovesse buttare giù qualcuno dalla torre, sarebbe la sinistra di Coalizione Civica per stringere un patto con i moderati che, a suo dire, sono stati poco rappresentati in questi anni: Bologna Civica dunque rientrerebbe nella sua alleanza
di Francesca Delvecchio, giornalista
È il più votato, nelle consultazioni degli iscritti ai circoli, quale candidato per il Pd alla successione di Virginio Merola, precedendo nettamente il collega di giunta, “il predestinato” Matteo Lepore, e Marco Lombardo, l’altro assessore della gang dei cosiddetti “giovani e semplici bastardi”, secondo il conio del primo cittadino. Lo scontro a questo punto, per chi sarà l’uomo che dovrà guidare il centrosinistra nella campagna elettorale per tenere Palazzo d’Accursio è tra lui e l’attuale assessore alla Cultura, il quale è invece maggiormente accreditato dai sondaggi nelle preferenze della società e dei potenziali elettori. Ma l’assessore alla Sicurezza non molla, nonostante all’interno del partito qualcuno lo spinga a farsi da parte. Lui è un giovane appassionato di politica ed è estremamente convinto della qualità del suo partito, ma anche del proprio impegno nella città e nella legalità. Un lombardo come Cofferati che, a differenza del sindacalista calato su Bologna, sotto le Torri è venuto per scelta e vocazione.
Assessore, è venuto a Bologna da Mantova per l’università, poi ha deciso di restare: ora addirittura sogna di diventarne il sindaco. Qual è uno dei suoi ricordi più belli del periodo da studente?
«Ho studiato Scienze politiche e ho fatto anche un esame con il professor Fulvio Cammarano (direttore del Master in Giornalismo, ndr). Lo ricordo come un periodo meraviglioso. Mi sono iscritto all’università nel 2003 e c’era un fermento che oggi non c’è, non solo per il Covid. Il momento più bello è rappresentato dalle battaglie politiche che abbiamo fatto da rappresentanti degli studenti, negli anni dal 2003 al 2005, col governo Berlusconi e il ministro Moratti. È stato lì che ho conosciuto molti amici».
Sappiamo che è appassionato di cinema. C’è un film che preferisce?
«La passione è nata perché a casa si guardavano molti film e ce ne sono alcuni a cui sono molto legato. Per esempio, conosco a memoria The Blues Brothers. Se devo fare il nome di un regista italiano, dico Sergio Leone, ma sono affezionato anche a Gabriele Salvatores, in particolare Marrakech Express e Mediterraneo. Un regista straniero che apprezzo molto è Clint Eastwood. In generale mi piacciono i film inchiesta, che riescono ad analizzare la realtà e a narrare vicende realmente accadute, come Il caso spotlight. Un altro stupendo è The social network. Direi uno dei tre film più belli degli ultimi anni».
The social network è scioccante. Dà una lettura della società non molto positiva, visto che siamo tutti abbastanza dipendenti dalla rete dei social. Crede potrebbe rappresentare questo momento storico?
«Sono d’accordo, è scioccante e purtroppo sì, siamo tutti dipendenti. Credo potrebbe essere un film che rappresenta la nostra epoca e la nostra generazione. Tra l’altro fa riflettere che due personalità politiche importanti del momento, come Joe Biden e Mario Draghi, a cui ricorriamo ora che siamo in emergenza, vengono da un’epoca molto lontana dai social network».
C’è un personaggio storico che l’ha ispirata ad approcciare la vita politica?
«Nella mia famiglia ogni parte politica era rappresentata al 50%. Da parte di mio padre erano comunisti, da quella di mia madre democristiani. Credo di venire dalla migliore tradizione del Pd. Non ho una figura di riferimento, però sicuramente ci sono Enrico Berlinguer e Aldo Moro, che rispecchiano le idee di casa. A proposito di film che conosco a memoria, ci sono Peppone e don Camillo, che si scontravano in continuazione, ma poi lavoravano per il bene comune».
Una buona metafora del Pd, in effetti. Partito a cui si è iscritto appena è stato fondato. Può dirci un risultato di cui è soddisfatto nell’ambito del suo assessorato?
«Sono molto soddisfatto di aver contribuito, nel mio piccolo, a riavvicinare tanti cittadini al Comune e alle istituzioni. Ho incontrato persone disilluse rispetto a quello che un’amministrazione comunale può fare per risolvere i problemi. Mi fa molto piacere che ci sia ancora la voglia di confrontarsi con la pubblica amministrazione, anche perché io l’assessore lo so fare parlando con le persone, stando per le strade e vedendo i problemi. Al di là di quello che siamo riusciti o no a fare, su temi anche complicati, spesso appannaggio della destra, ora in città abbiamo una credibilità».
In questi giorni a Bologna si parla di sicurezza e distanza sociale. Su piazza Scaravilli e la ribellione degli studenti, non è debole la risposta di chi deve intervenire, rispetto al disagio denunciato da molti cittadini?
«Dobbiamo sempre ricordarci che parliamo di una stretta minoranza di persone che purtroppo sono irresponsabili. La maggior parte dei cittadini, ma anche degli studenti sono assolutamente responsabili. In questi giorni poche centinaia di persone non hanno bene inteso o fanno finta di non intendere il periodo che stiamo vivendo, né che siamo ancora dentro la pandemia. Penso che il Comune abbia dato una risposta molto chiara, purtroppo facendo anche delle scelte difficili. Perché quando si decide di limitare uno spazio pubblico è una scelta dolorosa che si fa e non piacevole. È chiaro che, dall’altra parte ci deve essere anche un intervento delle forze dell’ordine. Io, però, ricordo sempre che non si può vivere in una comunità dove l’unica soluzione è la repressione o l’intervento delle forze dell’ordine. Una comunità non si terrà mai insieme in questo modo, a meno che non si voglia vivere in uno Stato di polizia. Forse qualcuno ha questa volontà, ma personalmente non ci credo».
Cosa pensa di piccole zone rosse nella città?
«Quando abbiamo chiuso le piazze sono di fatto diventate piccole zone rosse della città, almeno in alcuni orari della giornata. I provvedimenti che facciamo solo dalle 18 in poi, ma non durano tutta la giornata. Quindi non sono contrario. Certo, rimangono scelte emergenziali che devono essere limitate nel tempo».
La movida è vista come causa di diffusione di contagio, però è anche il fulcro della socialità. Ci sono modi per rendere i giovani parte attiva?
«In questa emergenza per i giovani si poteva fare di più e molto meglio. Parliamo di una generazione che è stata penalizzata in questi mesi e purtroppo ne vivrà per molto tempo le conseguenze. In futuro, andranno coinvolti di più. Anche quando ero nel consiglio studenti ero convinto servissero rappresentanti per agevolare il confronto con gli amministratori della città. Sennò lo studente fuori sede non ha punti di riferimento».
Nella pratica cosa bisognerebbe fare oggi?
«Molti punti di socialità per i giovani sono venuti a mancare e su questo bisognerà lavorare nel prossimo mandato. Ci sono studenti che non hanno la percezione dei luoghi della nostra città e si sono concentrati in alcune zone. Ricostruire luoghi di socialità non solo nel centro storico è una chiave per far vivere la città a questi giovani a 360 gradi, ma anche per intervenire indirettamente in tante situazioni. Oggi ci sono gli assembramenti, ma ieri c’era il rumore lamentato dai residenti».
Non si potrebbero lasciare bar e ristoranti aperti per disperdere gli assembramenti?
«Sì, credo si potrebbe fare. Ma anche qui bisogna rispettare le regole. La maggior parte dei ristoratori bolognesi è molto brava, poi c’è quella fetta, invece, che pensa di poter fare quello che vuole. Come principio sono d’accordo, ma bisogna capire come gestirla. Il rischio è di creare tanti piccoli assembramenti, senza risolvere molto. L’obiettivo deve essere quello di garantire la socialità, ma in totale sicurezza».
Cosa risponde a chi la definisce un “securitario” o uno sceriffo?
«Gli sceriffi non sono figure negative. Sono persone che fanno il loro lavoro per far sì che le regole vengano rispettate. Il principio del rispetto delle regole, che tutela le persone più deboli, in questo paese la sinistra spesso l’ha lasciato andare e non l’ha fatto proprio, compiendo un errore clamoroso. In questi anni ho cercato di far capire che i problemi di sicurezza me li pongono le persone che vivono nelle periferie di questa città, nelle case popolari. La definizione credo sia più che altro una caricatura. Se lo sceriffo è quello che si batte per dare una mano alle persone in difficoltà, far rispettare le regole, mi ci rivedo. È quello che ho cercato di fare».
Su questo, però, viene una forte opposizione politica da una parte della sinistra. C’è il problema di chi non si riconosce con questo atteggiamento.
«Sono d’accordo. Abbiamo due approcci diversi. Bisogna vedere se sono conciliabili per un’alleanza di governo della città. Al di là dei grandi temi della sinistra mondiale, amministrare una città poi vuol dire entrare nei problemi concreti delle persone. Ho l’impressione si faccia sempre molta teoria e poca pratica».
Riguardo alle amministrative, qual è la sua posizione sulla coalizione del centrosinistra? Pensa dovrebbe essere larga, come sostiene Andrea De Maria?
«Penso che la coalizione debba basarsi su delle idee comuni. Finora questo dibattito è mancato o è stato molto astratto. Ancora non ho avuto il piacere di confrontarmi con chi fuori dal Pd – all’interno del Pd discutiamo a volte anche troppo – dice che vorrebbe costruire o fare un’alleanza di centrosinistra. Molti parlano di questo modello Bonaccini, ma si è basato sulle cose fatte in questi anni e sul programma di mandato. Forse bisognerebbe partire da lì, mentre la sinistra fuori dal Pd, sulle politiche della sicurezza, ha criticato questa amministrazione. Immagino che se vorrà fare un’alleanza con il Pd sarà pronta a cambiare idea. Noi riteniamo che le scelte di questi anni siano concrete per rispondere ai cittadini e penso che l’amministrazione Merola abbia fatto tante politiche di sinistra. Ma non credo che il Pd debba ritenersi autosufficiente, quindi auspico ci sia anche una coalizione larga».
Parlando di Coalizione Civica, che appunto è in opposizione, non si rischia di favorirla con delle primarie di coalizione?
«Penso che le primarie di coalizione siano sempre il modo migliore per scegliere il candidato, non solo perché vengono coinvolti i cittadini il giorno del voto, ma anche perché si costruisce insieme il percorso. Chi partecipa alle primarie, poi accetta i risultati. Questo è lo spirito. Se le primarie ci saranno, io parteciperò. Sarà interessante se ci sarà anche Coalizione Civica o la sinistra fuori dal Pd per confrontarsi sulle cose concrete che abbiamo fatto in questi anni».
Se il Pd si presenta con più candidati (lei e Matteo Lepore), c’è il rischio di agevolare gli altri. Non è una tattica nociva?
«Le regole non permettono più di due candidati del Pd per partecipare alle primarie. Poi, se non ci sono le primarie, è sempre auspicabile che si trovi una sintesi unitaria».
Pare che Bologna civica e Coalizione civica non vogliano stare insieme. Chi sceglierebbe dei due l’aspirante sindaco Aitini, se costretto?
«Se sarà obbligatorio scegliere tra le forze civiche di coalizione, credo che la prossima giunta non potrà fare a meno di quelle più moderate, che oggi rappresentano le loro proposte dalla parte produttiva, le attività commerciali, le imprese. Quella parte della città che in questi anni, secondo me, noi abbiamo rappresentato poco».
Vista la crescita delle credenziali di Lepore e l’endorsement del sindaco, lei si sente ancora in corsa o in qualche momento ha pensato di ritirarsi?
«Ancora non c’è un candidato ufficiale e non sapendo quando si vota, è difficile capire i tempi del percorso. Per di più sono molto impegnato nell’amministrazione della città e nella gestione dell’emergenza sanitaria. Non sto facendo nessuna campagna elettorale, ma faccio il mio lavoro. Questo è prima di tutto un esempio di serietà che dobbiamo dare. Il sindaco ha dato una sua preferenza, non l’ha mai nascosta. Non c’è nulla di male nel farlo, ma penso anche sia soddisfatto di quello che sto facendo dal punto di vista amministrativo».
Come sono i suoi rapporti con Lepore, si sono deteriorati? Ha senso questa lotta tra membri dello stesso partito e della stessa Giunta?
«Con Matteo non si sono deteriorati i rapporti. Da persone mature quali siamo, continuiamo a lavorare quotidianamente insieme. Abbiamo anche deleghe che in parte sono affini, quindi quasi una volta al giorno ci troviamo a fare riunione insieme. Questo non viene mai meno.
Le primarie le dobbiamo vedere come un arricchimento del dibattito e non bisogna scadere in una campagna elettorale di insulti. L’importante è che, una volta finita, si torni a lavorare insieme per il bene della città. Il clima non dipende dalle primarie, ma dalle persone che le fanno».
Nel caso in cui perdesse le primarie e Lepore fosse sindaco, sarebbe disponibile a rimanere nella Giunta, magari, con un ruolo da assessore?
«Queste sono cose a cui non pensiamo. Chi fa politica o l’amministratore, lo sa che a fine mandato c’è il giudizio dei cittadini. Sono loro che decidono se continuare a darti fiducia o meno. Se mi dovessi candidare alle primarie e non dovessi vincere, valuterò. Continuerò a prescindere a fare politica in senso generale, perché è una passione. Contribuirò al partito. Se invece dovessi vincere, per me sarebbe il più grande onore della vita fare il sindaco della mia città, ma è chiaro che i cittadini sono i nostri datori di lavoro, è il loro giudizio che per noi deve essere importante. Forse è l’unica cosa che conta davvero».
Ha detto la “mia città”, quindi lei si sente bolognese?
«Sì, assolutamente. Bologna è la mia città. Vengo da Mantova e i miei genitori vivono lì, ma sono stato adottato da Bologna. Qui ho studiato, ci vivo e lavoro. È la città in cui, qualsiasi cosa succeda, passerò la mia vita. Bologna strega le persone e ci si innamora».
C’era un altro lombardo, Sergio Cofferati, che è venuto a Bologna e ha detto che sarebbe rimasto. Invece alla fine se n’è andato. Un giudizio sulla vicenda Cofferati?
«Cofferati è arrivato a Bologna per fare il sindaco. Ma è stato catapultato qui per una scelta politica, almeno da quello che narrano le cronache. Io sono venuto a Bologna per studiare e viverci, poi il fatto di fare l’amministratore è successo molti anni dopo. La prima grande differenza è questa, tanto più che Cofferati appena ha finito il mandato se n’è andato. Sulla politica locale, penso abbia dato una scossa di cui c’era bisogno. Ma il suo vero limite è di non essersi mai davvero integrato nella città, che per lui è stata solo una fase lavorativa. L’ho sempre visto come una persona che amministra dall’alto la città. Io non sono capace di fare così, devo stare in mezzo alla città per riuscire ad amministrarla. Non potrei fare diversamente».
Per Bologna, cosa comporterebbe un governo tecnico come quello di Draghi, anche in previsione del Recovery Fund?
«Nutro fiducia e speranza nel fatto che Draghi farà molto bene. Deve fare principalmente due cose: far uscire il Paese dall’emergenza sanitaria, portando a compimento la battaglia vaccinale, e saper impiegare nel modo corretto le risorse che ci arriveranno dall’Europa. Il problema è proprio questo, cioè saperle spendere nel modo giusto».
Sarebbe meglio un governo politico?
«Non decidiamo noi. Penso che i governi debbano essere il più possibile politici, perché il politico è quello che poi dopo cinque anni chiede il giudizio ai cittadini, se ha fatto bene o male. I tecnici dovrebbero affiancarli nelle scelte per poi aiutarli a prendere le decisioni».
Riesce a immaginarsi la Bologna post Covid? Secondo lei come sarà?
«Il nostro futuro lo lego molto al Recovery Fund. Abbiamo presentato un piano molto ambizioso per la nostra città, con progetti sulla sostenibilità ambientale, la trasformazione energetica. Abbiamo chiesto risorse per fare nuove scuole, ma vorremmo investire anche sulle case per giovani e per le persone che sono economicamente in difficoltà. In questi mesi ci siamo immaginati la Bologna nei prossimi vent’anni e i nostri progetti sono molto concreti e netti. Ma non sappiamo come usciremo dall’emergenza sanitaria. Ancora è imprevedibile quello che succederà. Probabilmente ci troveremo con un tasso di disoccupazione molto alto, con tanti negozi chiusi. Quando una saracinesca si abbassa, in quella via la città un po’ muore. Dovremo essere in grado di far fronte all’emergenza. Serviranno investimenti sul welfare. I bilanci comunali si trasformeranno enormemente. La sfida sarà dare un aiuto concreto alle persone senza abbassare il livello dei servizi».
L’articolo di Francesca Delvecchio è stato realizzato per InCronaca, rivista del Master in Giornalismo dell’Università di Bologna