I corsi di italiano di Làbas in vicolo Bolognetti resistono perché l’insegnamento è un “luogo” essenziale. Per rider, operatori della logistica, donne sole con figli a carico, senzatetto la didattica a distanza non è possibile. Imparare a leggere e a parlare significa avere accesso a sanità, lavoro, diritti. Vuol dire indipendenza anche nell’affrontare la pandemia, perché il burocratese delle norme anti-Covid è un insulto alla cittadinanza partecipata, base della democrazia
di Sara Finarelli, insegnante della Scuola d’Italiano Newén
Scuola Newén: proposte politiche (e educative) condivise. In merito all’intervento della scuola Newén all’assemblea delle realtà sociali, culturali e sindacali bolognesi del 14 gennaio, ecco qualche linea guida e qualche proposta per il prossimo futuro. Insieme per una città dei Diritti, insieme nel Manifesto per un governo condiviso della città. In un momento in cui per l’ennesima volta è sotto gli occhi di tutti la crisi della scuola pubblica, un cono d’ombra sembra essere calato sulle scuole d’italiano per donne e uomini migranti e per chi porta avanti l’insegnamento linguistico come forza propositiva d’integrazione.
Se l’annosa crisi della scuola statale è accelerata dalla pandemia, con studentesse e studenti che si mobilitano e fanno lezione al freddo fuori dalle aule, con ammissioni di responsabilità sulle discriminazioni connaturate alla Dad (digital divide, problemi psicologici dovuti alla mancanza della socialità di base), tutto questo esiste accentuato per le scuole di italiano L2 e in generale per le esperienze educative nate dal basso. La scuola d’italiano Newén a Làbas in Vicolo Bolognetti continua le lezioni sull’arco settimanale, strutturandosi secondo una divisione in tre livelli: alfabetizzazione, base e intermedio/avanzato. Le classi sono sia miste che per sole donne, necessarie in quanto spazio safe e fucina di esperienze e narrazioni condivise.
Abbiamo deciso di rimanere aperti perché la scuola è un luogo essenziale, tanto più ora che tantissime altre scuole in città stanno chiudendo, sono chiuse da mesi o hanno spostato tutte le loro attività sui portali online. Per molti che vogliono imparare la lingua, le opzioni di didattica a distanza non sono possibili. Non sono possibili perché nei nostri corsi di alfabetizzazione capiamo con mano cosa vuol dire non saper né leggere né scrivere. Non sono possibili perché tanti vivono in strada, e non hanno accesso a dispositivi tecnologici. Non sono possibili nemmeno per chi è già stremato da routine di lavoro notturno e rincorre contratti settimanali per arrivare a fine mese.
I ragazzi e le ragazze che vengono alle nostre lezioni sono rider, operatori della logistica, donne sole con figli a carico, persone senza fissa dimora. Per tutte e tutti loro imparare l’italiano vuol dire poter aver acceso alle strutture sanitarie, al lavoro, alla richiesta di diritti. Vuol dire diventare indipendenti nell’affrontare l’emergenza sanitaria in atto, perché il burocratese con cui le misure anti-Covid sono trasmesse è un insulto alla cittadinanza attiva e partecipata che sta alla base di una democrazia. Nella nostra scuola le informazioni sulla situazione sanitaria corrente vengono condivise e se necessario semplificate in un’ottica di reale cura reciproca.
Rimaniamo aperti per una condivisione delle conoscenze, non del consumo. Rimaniamo aperti in condizioni di massima sicurezza, sicurezza che spesso queste persone non hanno sui luoghi di lavoro (spesso i magazzini della logistica) e a casa (perché molto spesso casa non ce l’hanno). Le istituzioni non possono distogliere gli occhi da questa drammatica evidenza: la continuità lavorativa viene richiesta a chi non ha assicurata la continuità educativa. I diritti alle persone marginalizzate non sono garantiti, i doveri sono drammaticamente imposti.
Chiediamo fondi per i progetti di accoglienza, che invece vengono sempre più bloccati e ignorati dai nuovi decreti. Rivendichiamo continuità didattica per gli spazi che intercettano il fondamentale bisogno di autodeterminarsi attraverso la parola. Chiediamo l’implementazione, il sostegno e l’apertura non solo del nostro, ma anche di nuovi spazi che si dedichino all’integrazione attraverso l’insegnamento linguistico.
Come qualcun* diceva: “non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali tra diseguali”.
E come diciamo noi: se i tanti Mohamed, Iqbal, Lamin sono sfruttati con contratti ridicoli all’interporto va bene, nessuno dalle istituzioni dice nulla, però si legifera sulla chiusura delle scuole per persone migranti o sulla diminuzione dei posti in dormitorio. Pensiamo sia necessario che scuole come la nostra, considerate da molti periferia del discorso educativo, continuino a portare avanti il proprio esempio virtuoso; anzi che sia presa a modello dal dibattito istituzionale. Questo affinché corresponsabilità ed educazione, autodeterminazione e cura entrino come valori fondanti della città che vogliamo.