Per un/a detenuto/a l’accesso al diritto allo studio è un’opportunità (legale) per acquisire nuove e alte competenze, che potranno avere un potenziale impatto sul loro futuro. La sfida è che i contenuti trasmessi e acquisiti possano rappresentare uno spazio in cui sviluppare e praticare il pensiero critico, e migliorare la capacità di comprensione di aspetti diversi della società. «Il nostro Ateneo – ha dichiarato in un’intervista al Cubo il delegato del rettore per il Polo universitario penitenziario, prof. Paolo Zurla – si sta impegnando nella progettazione e realizzazione di nuove attività di accompagnamento allo studio e di rafforzamento del tema carcere/pena come oggetto di ricerca scientifica. Molto significativa, a tal proposito, la realizzazione della notte dei ricercatori»
di Francesca Montuschi, dipendente Unibo
Nell’immaginario collettivo il carcere e l’università sono mondi agli antipodi: al primo corrisponde l’idea di restrizione, di reclusione, di pena; al secondo sono associati i concetti di conoscenza, di luogo di apertura e crescita collettiva, di costruzione delle coscienze e, in particolare, di preziosa inviolabile salvaguardia del pensiero critico e libero. Eppure, è bene ricordarlo, lo studio in carcere è un diritto previsto dalla nostra Costituzione, che trova fondamento nel principio che la privazione della libertà, disposta come sanzione, non può implicare la compressione di altri diritti.

Secondo i dati più recenti messi a disposizione dal Ministero della Giustizia, riferiti all’anno accademico 2021-22, gli studenti universitari in carcere o in esecuzione penale esterna, pur in aumento, sono appena 1.246 (1.201 uomini e 45 donne), 67 dei quali immatricolati a corsi di laurea dell’Università di Bologna, quarta nella graduatoria nazionale degli Atenei, guidata dall’Università Statale di Milano. «Per quanto concerne l’ambito di studio – specifica Zurla – a Bologna prevalgono nettamente le discipline di carattere giuridico, sociale e letterario umanistico; significativa è anche la concentrazione degli iscritti nell’ambito agrario».
Le università sin dagli anni ‘60 si sono mosse, infatti, laddove possibile, per adempiere a un proprio dovere imprescindibile: garantire a tutti coloro che lo desiderano e ne hanno i requisiti la possibilità di esercitare il diritto allo studio. Tale responsabilità rientra nella ‘prima missione’, ovvero la formazione, e ha dato vita, nel corso degli anni, alla costituzione di poli universitari penitenziari. Vere e proprie sezioni universitarie, grazie alle quali gli studenti detenuti, in buona sostanza, dispongono di agevolazioni e servizi dedicati: esenzioni dalle tasse di iscrizione, spazi comuni per lo studio, strumenti informatici e reparti biblioteche, tanto per citarne alcuni.
A livello nazionale, la configurazione dei poli universitari penitenziari è piuttosto differenziata, con alcune aree scoperte, anche a causa dell’assenza di una strategia unitaria iniziale. Per questo motivo, la Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari (Cnupp) si è posta l’obiettivo di garantire ai detenuti l’opportunità di seguire percorsi universitari in maniera diffusa su tutto il territorio nazionale, anche nelle zone geografiche in cui oggi sono assenti o poco strutturati.
Grazie al coordinamento del professor Paolo Zurla, delegato del rettore per il Polo Universitario Penitenziario, il nostro Ateneo si sta impegnando nella progettazione e realizzazione di nuove attività. In primo luogo, è stata deliberata l’assegnazione di un contratto annuale di 60 ore per un formatore linguistico che supporti l’apprendimento della lingua inglese presso la Casa circondariale di Bologna. In secondo luogo è stato messo a punto il Regolamento degli studenti volontari dell’università di Bologna, che ne definisce le modalità di reclutamento e le attività.
«Per poter operare come studenti volontari – conclude il delegato del Magnifico – dopo la partecipazione obbligatoria a un percorso di formazione specifico, sono necessarie le autorizzazioni rilasciate dal carcere e dalla magistratura di sorveglianza». La presenza entro il perimetro dei penitenziari dell’università rappresenta per quest’ultima, al tempo stesso, sia un’opportunità sia una sfida.
L’opportunità consiste nella possibilità per gli atenei di aprirsi verso l’esterno, confrontandosi proficuamente con realtà non accademiche. In particolare, per quanto riguarda gli studenti volontari, l’esperienza del contatto diretto con le situazioni di disagio sociale o psicologico vissute in carcere può rivelarsi altrettanto formativa quanto il proprio percorso di studi. La sfida è rappresentata, per gli stessi atenei, dal saper interpretare un ruolo che vada oltre la semplice erogazione di attività formative nei penitenziari, proiettandosi maggiormente in una dimensione caratteristica della Terza Missione. Nel rapportarsi a studenti detenuti è senza dubbio importante fornire loro, come avviene peraltro per qualsiasi altro studente, conoscenze e competenze curriculari fortemente connesse con il mercato del lavoro, che potranno rivelarsi cruciali, una volta scontata la pena, al momento della ricerca attiva di un’occupazione.
Sempre in ottica di Terza Missione, assumono particolare rilevanza gli incontri e dibattiti promossi dal personale universitario volti a contribuire alla crescita culturale dei detenuti (anche non iscritti) e a migliorare la loro capacità di comprensione di aspetti diversi della società, delle scienze, della cultura e, più in generale, della vita.
Fino al prossimo mese di maggio l’associazione composta da docenti dell’Alma Mater Parliamoneora, ha organizzato una rassegna di otto incontri presso la Casa circondariale ‘Rocco D’Amato’ di Bologna, proprio con l’obiettivo di coinvolgere le/i detenute/i in una riflessione critica e consapevole su alcune grandi questioni che impattano sulla società contemporanea.
L’articolo è stato realizzato per la rivista Cubo – Circolo Università di Bologna, diretta da Massimiliano Cordeddu. In copertina; Casa circondariale di Porto Azzurro, Isola d’Elba (LI)