Prossimità e vicinanza: riorganizzarsi ai tempi del Covid-19

Anche coloro che possono lavorare da casa non sono in grado di gestire contemporaneamente i figli e il lavoro, soprattutto se vivono condizioni di fragilità. Saremo in grado di rinnovare il nostro modo di concepire l’educazione e creare prossimità per accompagnare anche chi è disabile o è malato all’avvio di Progetti di Vita equi e sostenibili per tutti e per ciascuno?

di Elena Malaguti, docente di didattica e pedagogia speciale


Finalmente ho capito che trapanela è la tapparella, poi Nicoletta è Colinetta e comunque il cioccolato è da sempre cocciolato ed è pazzesco, non ne azzecca una, veramente … ed io che volevo avere due figli intellettuali! Inoltre ho appena scoperto che la scuola rimarrà chiusa, almeno, fino al 15 marzo. Bene! Ride e commenta … non mi rimane che bloccare qualsiasi attività e uscire facendo lunghe passeggiate con Ben. Non ho altre possibilità…”. Qualche ora dopo, mi comunica che ha messo a disposizione le sue competenze linguistiche, e quelle di suo marito, in inglese e tedesco, per organizzare incontri di studio utilizzando le tecnologie, con i compagni e le compagne della classe di Ben. Inoltre, un compagno e una compagna, sempre le stesse, due volte alla settimana andranno a trovare Ben per studiare e trascorrere un po’ di tempo con lui.

Ilse è una scrittrice, si occupa di editoria e ha due figli: uno autistico e l’altro dislessico e disgrafico. Vive, in una città della zona rossa dell’Italia, molto produttiva da un punto di vista economico ma che negli anni (i suoi figli hanno 15 e 18 anni) non ha mai attivato attività extrascolastiche dove potesse partecipare anche suo figlio autistico. Ilse forse, anche per sconfiggere l’isolamento, il senso di solitudine, di estraneità, che ha incontrato fin dalla nascita del suo secondo figlio, ha avviato poche ma significative relazioni di amicizia, ha cercato il confronto con esperti e soprattutto con persone umane che con impegno e responsabilità desiderassero, come lei, costruire contesti, comunità e gruppi, realmente accoglienti e inclusivi, in cui ci fosse posto anche per i bambini, le bambine, i giovani e le persone disabili, più vulnerabili. Ha esercitato e cerca di esercitare il diritto-dovere di essere un genitore che desidera una particolare normalità nella sua vita quotidiana per accompagnare i suoi figli, nella costruzione di un progetto di vita. Non tutti i genitori di bambini e giovani con disabilità hanno la possibilità di fermare le loro attività.

Anche coloro che possono lavorare da casa, attraverso lo smart working (sempre che funzioni) non possono gestire da casa contemporaneamente il figlio o la figlia e il lavoro, o avere tre o quattro postazioni a disposizione. Non tutti padroneggiano l’uso delle tecnologie o le possiedono e hanno la capacità di riorganizzare in pochi giorni la loro quotidianità. Ci sono università e scuole preparate a gestire anche le lezioni on line e altre che non lo sono. Le tecnologie sono uno dei modi possibili, non la soluzione dei problemi.

Ai tempi del Covid-19, potrebbe essere utile avere chiaro qual è il ruolo della cultura nel nostro Paese, dell’educazione inclusiva, dell’assistenza, se ne esiste una unitaria e di come far fronte a condizioni e situazioni di emergenza. Probabilmente esiste un’immagine di educazione inclusiva che grosso modo ha caratteristiche tali da essere percepita come unitaria, ma che è indubbiamente composta da molti elementi di molte culture. La storia di un Paese non è mai pura, è storia di intrecci. A quale epoca risalire, per stabilire la cultura da cui deriva una storia è un’impresa difficilissima che ha soprattutto delle caratteristiche simboliche o ideologiche. Ciò premesso, si può ritenere che chi improvvisamente si trova chiusi i servizi educativi e le scuole, subisca uno spaesamento. Lo spaesamento può essere tanto più forte se il singolo ne ha preso atto, senza essere preparato e forzato da un’emergenza sanitaria. Accanto a questa situazione vi può essere un doppio spaesamento, da parte di genitori di persone con disabilità o da parte di molti educatori ed educatrici, che non avendo un ruolo stabile sociale e professionale, si vedono improvvisamente sospendere lo stipendio. Alcune cooperative sociali si sono attrezzate mandando a casa dei genitori l’educatore o l’educatrice di sostegno che lavora a scuola, altre hanno semplicemente sospeso le attività. Un ulteriore spaesamento si può generare in quei bambini o giovani che hanno bisogno di un’organizzazione quotidiana che prevede routine e tempi strutturati o ancora coloro che vivono momenti di forte dolore (lutti, divorzi, malattie dei genitori…) che trovano, nella relazione con gli altri, la linfa che permette loro di far fronte a situazioni e condizioni difficili. La vicinanza e la prossimità, la consapevolezza dell’impatto che quell’evento crea nella vita di quella persona o del suo sistema di riferimento, i sostegni affettivi o i rimproveri, l’aiuto sociale, economico, o l’incuranza e l’abbandono, attribuiscono a una medesima ferita o evento un significato differente. Questo dipende anche dal modo in cui le culture strutturano i loro racconti e attivano processi di intervento, permettendo a uno stesso accadimento di trasformare la vergogna in un’occasione di crescita. L’odio in amore. Può accadere dunque che le circostanze sociali del dopo evento traumatico inibiscano l’efficacia di ciò che può tutelare il processo di resilienza umana. Si può, dunque, innescare una dinamica involutiva, di desilience, di disinvestimento, laddove si sono perse la cornice di riferimento e l’orizzonte spirituale, culturale, sociale, politico ed economico, all’interno del quale situare la propria esistenza.

Uno dei malintesi che caratterizzano il costrutto della resilienza è che esso non consideri la dimensione della fragilità, della vulnerabilità, dell’evento di natura traumatica. Un po’ come se affrontare l’argomento significasse omettere la sofferenza, il disorientamento, la fatica, la condizione di dolore, i danni anche neurobiologici che la persona, il suo contesto di riferimento o la comunità si trovano a vivere. Un po’ come se gli esseri umani possedessero una pozione magica, capace di guarire le ferite, di eliminare le conseguenze degli eventi che ci attraversano, e il processo di resilienza non fosse connaturato alla vita stessa. Un secondo malinteso è quello che concerne la parola crisi. La crisi, dal greco krisis, che significa scelta, rappresenta anche una rottura: non si è più quelli di prima ma cosa si diventerà ancora non è dato di saperlo. Ogni individuo ha bisogno degli altri e di un’organizzazione stabile con indicatori di sviluppo perseguibili, all’interno della quale riconoscersi e che si determina con il tempo.

La radice di “fragile” richiama il verbo latino frangere, ovvero rompere, e il termine fragmentum,frammento, pezzo. Constatare che siamo fragili, nessuno escluso, comporta ammettere che abbiamo dei limiti, che ciascuno è un frammento, una particella che si muove nel pianeta e che siamo esposti al rischio di romperci, o di rompere le connessioni che danno senso alla nostra esistenza, o di non trovare riferimenti e orientamenti in cui riconoscersi. Siamo vulnerabili perché fragili. Tale constatazione spaventa. Essere fragili, sottoposti a una possibile rottura e a una conseguente crisi, genera una condizione di vulnerabilità. Essa comporta l’essere facilmente attaccabili, danneggiabili e vivere una condizione che può essere invasa dal dolore, dalla sofferenza ed essere esposta a pericoli, poiché il più delle volte non si è in grado di proteggersi o manca la protezione. Roger Garaudy (Marsiglia 1913 – 2012 Chennevièressur-Marne) scrive che il dialogo della civiltà è avvicinarsi all’altro uomo per ritrovare, grazie a lui, le dimensioni perdute dell’umanità e le opportunità perdute della nostra storia (L’homme et l’humanité, 1974). Robert Vachon, lo cita nel saggio Cosmic Perspective (1975) affermando che la sfida della pluralità è quella di costruire l’unità malgrado le differenze. La sfida del pluralismo è quella di vivere l’armonia nelle differenze e a causa di esse. La resilienza è pluralità. I suoni e le parole, come le identità (ad esempio Covid-19), necessitano di riconoscimento, detto anche agnizione, dal latino agnitio, che è un topos delle opere narrative o drammatiche. Consiste nell’improvviso e inaspettato riconoscimento dell’identità di un personaggio, che determina una svolta decisiva nella vicenda. Nelle arti e nelle religioni, il riconoscimento è fondamentale nel percorso verso la verità. Rabbi Mendel di Kozk disse: “Dio abita dove lo si lascia entrare”. E alcuni l’hanno lasciato entrare riconoscendolo in chi è povero e sconfitto, in chi è lasciato ai margini e dimenticato, in chi è disabile. Tale riconoscimento ha prodotto notevoli progressi, almeno in Italia, che oggi richiedono di essere rivisitati con fiducia e serietà.

Se il gruppo si costituisce creando barriere, separazioni, divisioni, non riuscendo a riconoscere la propria fragilità all’interno di una comunità umana, che è costituita da differenze e diversità, sarà molto complicato riuscire a riorganizzarsi per migliorare la propria e altrui qualità di vita. Ogni sistema si dota della possibilità di difendersi da un’eventuale fragilità, decidendo in modo implicito o esplicito di isolare o espellere l’elemento che si rivela vulnerabile. Il distanziamento sociale può essere indispensabile in alcune circostanze ma contiene anche aspetti di difesa, di cui occorre essere consapevoli, a volte reciproci (la persona vulnerabile decide di isolarsi poiché non trova altre soluzioni e l’organizzazione la isola), a volte sbilanciati, che occorrerà superare anche prevedendo sistemi di promozione della salute e della qualità di vita, compresa la Terra su cui si abita. Si può certamente affermare che il Rinascimento italiano abbia prodotto capolavori. È stato preparato e reso possibile dall’Italia dei Comuni che non progettava quei capolavori e che non sarebbero, però, stati realizzati senza quel momento storico. All’interno delle mura delle città convivevano contadini inurbati, feudatari minori che cercavano di sottrarsi alla sudditanza nei confronti dei grandi feudatari, notai, giudici, medici, piccoli artigiani e mercanti. Le città dei Comuni erano dei biotopi. Quando Michelangelo produsse i suoi capolavori, aveva attorno artigiani abili, esperti nell’utilizzo di vari materiali. Il progetto di Michelangelo emergeva da progetti precedenti che non potevano conoscere i suoi progetti. In alcuni campi il termine resilienza è stato usato in senso stretto, per indicare il tasso di ritorno all’equilibrio in caso di perturbazione. Questi campi tendono a interpretare la resilienza come un rimbalzo dopo una perturbazione, o un recupero a quello che si era prima in termini più generali. Visto da questo punto di vista, c’è spesso un’attenzione implicita nel cercare di resistere al cambiamento e di controllarlo per mantenere la stabilità, per mantenere lo status quo.

I recenti studi e approcci alla resilienza sono molto più comprensivi. Il processo si riferisce a complesse dinamiche dei sistemi socio-ecologici, della condizione di incertezza, di come imparare a convivere con i cambiamenti, anche climatici. Si tratta anche di conoscere e comprendere il prima – ovvero l’organizzazione del sistema antecedente all’evento, il durante e non solo il dopo evento. Nella sua essenza principale il costrutto di resilienza è molto semplice. La società, per analogia, può manifestare resistenza, processi e competenze di riorganizzazione per sopravvivere, sopportare e rispondere alle pressioni a cui è sottoposta, anche non curandosi delle migliaia di persone che potrebbe perdere continuando verso un progresso privo di cornici di riferimento. Anche, ad esempio, decidendo di abbandonare la vita sulla Terra per cercare riparo in altri Pianeti. La questione, però, riguarda la comprensione dei processi che influenzano tali risposte e anche la vita sulla Terra. Holling (1973, 1996), ecologo dei sistemi, definisce la resilienza in riferimento all’omeostasi, ovvero la propensione di un corpo a ritrovare un possibile equilibrio. Il sistema ecologico sarà in grado di rigenerarsi se si creano le condizioni. Nel 2000 gli scienziati e non scienziati, Paul Crutzen ed Eugene Stoermer, hanno introdotto la parola “Antropocene”, per sottolineare il concetto che stiamo vivendo in un’epoca in cui l’ambiente globale, a un certo livello, è plasmato dal genere umano piuttosto che viceversa. Gli esseri umani hanno alterato in modo significativo la superficie terrestre, gli oceani, i fiumi, l’atmosfera, la flora e la fauna della Terra. Con la loro enfasi, sul qui e ora e su ciò che l’uomo ha fatto e può fare in futuro, la parola “Antropocene” è servita da richiamo all’azione per la sostenibilità e la responsabilità ambientale (Crutzen e Stoermer, 2000; Waters et al., 2014; Ruddiman et al., 2001). Le dimensioni dell’impresa umana sulla Terra sono ormai così grandi che una quantità crescente di prove scientifiche indica che il pianeta è entrato in una nuova epoca geologica.

L’Antropocene – l’era dell’uomo – segna un cambiamento straordinario nel sistema terrestre, dove noi, umanità, rappresentiamo oggi la più grande forza di cambiamento del pianeta. Una vasta gamma di misure sociali, ecologiche ed economiche mostrano un aumento esponenziale dello sviluppo sociale ed economico da un lato e dell’impatto ambientale dall’altro, in gran parte a partire dagli anni ’50. Questo è diventato noto come la Grande Accelerazione della dimensione umana sulla Terra. L’autoreferenzialità moltiplica le situazioni disgregate. La resilienza ha bisogno di spazio, anche e soprattutto mentale. Uno spazio ampio cambia le proporzioni, permettendo di vedere quello che nello spazio ristretto era enorme, invece come grande. Combinare fra loro diversi contesti non significa assegnare a ciascuno la stessa grandezza degli altri, lo stesso dosaggio. Inoltre, è indispensabile attivare, migliorare, innovare, i sistemi di supporto (sanitari, sociali, economici, scolastici, culturali, giuridici); è utile trovare punti di riferimento e persone competenti, affinché attraverso modalità, anche operative di supporto, i territori possano ritrovare un senso e un significato non solo rispetto all’esperienza vissuta ma alle differenti forme e strategie per continuare a vivere e riorganizzare il proprio percorso. Tale situazione ha profonde implicazioni.

Affrontare la povertà e la disuguaglianza, come sostiene anche il Stockholm Resilience Centre, far progredire il benessere umano rimane un’ambizione e una sfida importante per il XXI secolo, ma tenendo conto del fatto che lo sviluppo deve avvenire nel contesto dell’Antropocene – un mondo sempre più complesso, dinamico e iperconnesso, caratterizzato da cambiamenti sempre più rapidi e pressioni crescenti sulle risorse. L’Antropocene cambia il modo in cui dobbiamo pensare al nostro mondo e al pianeta in cui viviamo. Si tratta di riflettere in termini di ecologia sociale ed umana in modo integrale, dove la preoccupazione per la natura, l’equità verso i poveri, i più deboli, l’impegno nella società, lo sviluppo di tecnologie della conoscenza ma anche le relazioni umane, la gioia e la pace interiore, risultino inseparabili. Ai tempi del Covid-19, dovendosi forzatamente fermare ci si potrebbe impegnare anche attraverso piccoli gesti quotidiani (una telefonata, un messaggio) che permettano all’altro di sentirsi riconosciuto e meno solo o sola.

Scrive Fiorella Mannoia nella canzone Il peso del coraggio: «Siamo il silenzio che resta dopo le parole / Siamo anche la voce che può arrivare dove vuole / Siamo il confine della nostra libertà / Siamo noi l’umanità / Siamo il diritto di cambiare tutto e di ricominciare». Quali azioni creative ed innovative saranno messe in atto per accogliere lo spaesamento dei bambini e delle bambine, dei giovani anche con disabilità o che vivono condizioni di fragilità (qui intesa come condizione eterogena che ha molte peculiarità e differenze a seconda della specifica situazione che si affronta)? Saremo in grado non solo di chiudere delle toppe ma anche di rinnovare il nostro modo di concepire l’educazione, la scuola, di essere in relazione, di creare prossimità e vicinanza per accompagnare anche chi è disabile o vive eventi di natura traumatica o è malato all’avvio di Progetti di Vita equi e sostenibili per tutti e per ciascuno?


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