21 aprile 1945, e le donne si riappropriarono dello spazio pubblico e politico

Non fu solo il giorno della fine della guerra. Scesero subito in piazza del Nettuno per appendere al muro di Palazzo d’Accursio le foto dei familiari caduti durante la Resistenza. Quel luogo di martirio di antifascisti e partigiani divenne così non solo il simbolo della sconfitta dell’odio, il Sacrario dei Caduti, ma anche della liberazione di un territorio occupato dal regime e da cui erano state escluse, non solo nel ventennio

di Cinzia Venturoli, storica


«Ormai tutta la gente è per le strade, con una felicità che non ho più potuto vedere nei visi delle persone; la gente piangeva di gioia e ti abbracciava senza conoscerti». Così la partigiana Giuliana Tomba [1] ricorda il 21 aprile 1945, il giorno della Liberazione di Bologna. Quello stesso pomeriggio altre donne si recarono in piazza del Nettuno e cominciarono ad appendere al muro di palazzo d’Accursio le foto dei loro famigliari caduti durante la Resistenza. In quel luogo dove gli antifascisti e i partigiani venivano fucilati, in quell’angolo dove i loro cadaveri straziati venivano lasciati insepolti, su quello stesso muro dove i fascisti e i nazisti avevano scritto per spregio “posto di ristoro per i partigiani”. Via via quella parete si trasformò in un luogo della commemorazione, del cordoglio, del rispetto per chi aveva combattuto ed era stato ucciso per la liberazione e i cittadini portarono fiori e messaggi. Dopo pochi giorni, il muro fu completamente ricoperto di fotografie: chi portava una fototessera, chi la foto del matrimonio, chi la foto ricordo di un momento felice.

Vi era una forte necessità di dare degna sepoltura ai morti, cosa che durante gli ultimi anni della guerra e della Resistenza non era stato possibile, i funerali dei partigiani, spesso proibiti, si facevano, quando possibile, in fretta e di nascosto e le donne ricordano con grande angoscia l’impossibilità di elaborare in modo collettivo il lutto, di poter esprimere il cordoglio. Era mancato il rito di commiato e l’abbraccio per chi restava, così come era mancata la possibilità di mostrare vicinanza a chi veniva arrestato, rastrellato, trascinato verso la tortura o la deportazione: “Non si poteva nemmeno dire poverino, non si poteva andare a portare un bicchier d’acqua”, ricordano molte donne. Portare un fiore sulle tombe dei partigiani divenne una scelta di Resistenza. Per questo, rendere omaggio agli uccisi divenne così importante da subito, mentre ancora si festeggiava la Liberazione, e lo fu ancora di più dando un volto a quei nomi, portando su quel muro un attimo della loro vita interrotta per sempre, in un atto indispensabile per costruire, ricostruire, il tessuto sociale dopo una esperienza difficile come la guerra totale, l’occupazione nazista e il regime fascista, per riappropriarsi dello spazio pubblico e politico.

Uno spazio pubblico, monopolizzato dallo stato totalitario, che le donne occuparono anche durante la Resistenza, fin da subito: infatti, simbolicamente, il 4 novembre 1943, con un atto di disubbidienza civile, furono chiamate a rendere omaggio, con un fiore, alle vittime e alla vittoria della Prima guerra mondiale. Un atto duramente proibito dagli occupanti, con la complicità della Repubblica di Salò, che furono gli sconfitti della Grande guerra e non volevano festeggiamenti. E poi per tutto il 1944 e il 1945 quando le donne si impegnarono in numerose dimostrazioni pubbliche in cui chiedevano pane e pace.

Le donne, in modo sempre più chiaro e forte, volevano entrare in quello spazio pubblico, in quella sfera politica da cui per molto, troppo, tempo erano state escluse e ancor di più durante il ventennio  fascista e quindi  la voglia di “sapere di politica” era sempre più intensa, ma a volte veniva frustrata: “Quando parlavano di politica, mi mandavano a letto con i bambini”, ricordano le donne che vivevano come una grande ingiustizia questa esclusione visto che la loro attività era intensa, importante ed essenziale per la stessa esistenza della Resistenza: si occupavano dei partigiani feriti e ne curavano la sopravvivenza, trasportavano armi, documenti e stampa clandestina rendendo possibili le azioni dei gappisti in città e il coordinamento delle squadre d’azione patriottica e delle brigate, si presero immense responsabilità e corsero pericoli quali il carcere, le torture, la deportazione, la morte.

Uno spazio pubblico che le donne, a Bologna, occuparono e rivendicarono durante le manifestazioni che seguirono il 21 aprile sfidando ogni possibile giudizio, o pregiudizio, sul loro ruolo nella società che si doveva costruire. Scriveva Fenoglio, in riferimento al Piemonte: «Cogli uomini […] sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare: – Ahi, povera Italia! – perché queste ragazze avevano delle facce e un’andatura che i cittadini presero tutti a strizzare l’occhio. I comandanti, su questo punto, non si facevano illusioni, alla vigilia della calata avevano dato ordine che le partigiane restassero assolutamente sulle colline, ma quelle li avevano mandati a farsi fottere e si erano scaraventate in città» (Beppe Fenoglio, I ventitré giorni della città di Alba, Einaudi, Torino 2000, pp. 159-162).

[1] in Luciano Bergonzini, La Resistenza a Bologna testimonianze e documenti, volume V, Istituto per la Storia di Bologna, 1980, pp. 660/664.



Un pensiero riguardo “21 aprile 1945, e le donne si riappropriarono dello spazio pubblico e politico

  1. BELLO, BELLO, BELLO!
    QUESTE SONO COSE CHE ANDREBBERO INSEGNATE NELLE SCUOLE ALLE NUOVE GENERAZIONI. E’ UN DOCUMENTO ECCEZIONALE! COMPLIMENTI E GRAZIE!

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