Le statue, le piazze e l’esuberante vivacità della città / Seconda parte

Siamo chiamati a dire se vogliamo una piazza con l’erbetta o meno. Intanto abbiamo massacrato diverse piazze con generoso uso di micidiale architettura ostile. Guardiamo piazza delle Mercanzie, piazza San Francesco, e molte aree di importanti fermate del bus, come piazza Malpighi, piazza Minghetti o in via San Donato, la fermata davanti al Graf che ora sembra l’ingresso di Guantanamo

di Gabriele Via, poeta


Come abbiamo visto anche un obelisco è una statua, lo è un menhir, lo è un linga come lo sono la sfera di Pomodoro o la foca di Brancusi. Ma le statue a cui si riferiscono gli atti di iconoclastia odierni che abbiamo ragione di temere, sono opere antropomorfe messe in luoghi pubblici: piazze, giardini, larghi, logge, ponti, ecc. Dobbiamo leggervi quindi un carattere politico, in questi atti di massa?

Io non credo. Non c’è politica, almeno nel senso di azione di popolo che si autodetermina. Piuttosto a me pare ci sia “la violenza di settecento pecore”: uso qui il titolo di una bellissima poesia del nostro amato Roberto Roversi. C’è un uso molto ben congegnato di questa cieca violenza. Mentre la politica, e questa mi pare una delle profezie di Pasolini, è ormai chiaramente tramontata. 

Gli agenti della propaganda, nascosti ma reali, tramite tante pratiche – penso rapidamente al noto decalogo di Chomsky – tra le quali la dissonanza cognitiva è per me una cosa intollerabile, suggestionano continuamente il branco. E il branco si scatena come un toro contro la banderuola rossa in mano al torero: stimolo-risposta. Se è vero che sul piano individuale le teorie comportamentiste non godono più la fama che potevano avere cinquant’anni fa, pare invece che per condizionare e manipolare le masse servano oggi ancora molto bene allo scopo. 

Perché poi questo punto non sia nell’agenda delle forze democratiche di sinistra resta per me un vero e proprio mistero, dal momento che tutto lo svolgimento democratico della vita civile non può non tenere conto della piena ed effettiva accessibilità e libertà democratica e costituzionale degli strumenti di comunicazione di massa. Si vedrà a che anni risalgono Quarto potere di Orson Welles e poi Quinto potere di Sidney Lumet.

Se vi fosse politica in questi urti devastanti e folli – ricordiamoci che sono state divelte e demolite nel mondo le statue di Cristoforo Colombo, Churchill e Gandhi – potremmo dunque credere che una forza incontenibile di rivoluzione o riforma radicale sia in atto. Ma non c’è niente di tutto ciò.

Ci sono solo clamori scandalistici, scoop che riempiono la prima pagina con grande risposta del pubblico della curva sud, poi intervengono le notizie sportive, le nozze chiacchierate di chissacomesichiama e finalmente la grande vittoria di questo e quello e il tanto atteso disco di Tina Mirella. Qualcuno penserà che sto prendendomi gioco dell’onesto lettore se a questo punto metterò in elenco un proclama circa la costruzione del ponte sullo stretto di Messina, perciò non oso tanto. Lasciamo che la realtà dia cesello al delirio. 

E così la ruota gira. Ritorna ad aumentare il consumo di caffè. E canta che ti passa.

Qualche volta la realtà può avere deludenti spiegazioni apparentemente banali: il proverbio ci ricorda però che il diavolo fa le pentole, non i coperchi. Così, in attesa scrupolosa di dire una parola siamo sempre alla ricerca di questi benedetti coperchi mancanti. E intanto restiamo fottuti. Un altro giro, un altro regalo.

Un popolo imbottito di televisione queste cose non le può capire. Credo di avere gli anni per dirlo, a malincuore.

I recenti mesi, se li avessimo vissuti con il concorso della società civile prodiga partecipe e cooperante in coordinamento con le istituzioni dello Stato (partiti, sindacati, associazioni, volontari): in una parola se fosse stato richiamato ed esaltato il ruolo necessario di ciò che si chiama Repubblica, sarebbe stato per noi tutti un grande laboratorio civile. Lo scrissi subito; e subito sono stato ignorato da lettori probabilmente molto più intelligenti delle mie scarse argomentazioni. Invece dal primo decreto marzolino il Presidente del consiglio dei ministri in persona ha preso la più chiara e severa china repressiva. E tutti i partiti – almeno quelli che hanno una dignità storica e civile da poter essere interlocutori politici – gli sono andati dietro scandalizzandosi addirittura con chi cercava libertà di azione critica sul terreno democratico.

Siamo piombati nel clima magico sacrificale del folle XVII secolo: la tarda e micidiale inquisizione del periodo barocco, che, a proposito di deliri è pure sempre il secolo del genio scientifico moderno e di Bernini.

Ora i pochi germogli di potenzialità civile sono stati irrorati da mesi di “agente arancione” mediatico e siamo ridotti allo stato dei famosi topi nelle gabbie col pavimento elettrificato che ci mostrava Henri Laborit nei suoi famosi esprimenti – si veda a tal proposito l’illuminante e geniale film: Mon oncle d’Amerique, opera di Alain Resnsis del 1980.

Orbene. Abbiamo da un lato delle statue, più o meno recenti, il loro volume e la loro massa che occupano lo spazio architettonico delle città. Col loro potenziale simbolico di aggregare proiezione di significati: una specie di schermo magnetico per paure, pregiudizi, deliri ideologici collettivi, che dorme come il Vesuvio. Nessuno sa quando e come si sveglierà. 

Intanto “qualcuno” ha riportato le lancette dell’orologio della storia indietro di decenni; alcuni dicono di secoli, anche se in un fragore elettronico supercolorato. 

Io credo che ce ne sia abbastanza per farci tornare due curiosità: da un lato sentire il profondo bisogno di leggere e conoscere la storia. Mi viene in mente uno dei più noti luoghi comuni circa la storia. Tutti dicono: per capire il presente devi conoscere il passato. Come ogni formula sintetica e stereotipata questa corre il rischio di una oscura ambiguità. 

Ciò che un genio come Marc Bloch sembra volerci dire è infatti che proprio il presente è la possibilità dell’inizio della storia. È cioè la capacità di leggere il presente che ci porterà al viaggio meraviglioso e imprevedibile di conoscenza del mondo, del tempo, e del senso storico della vita umana. Perché al centro della storia sta la vita, non una vecchia traccia incomprensibile. 

Un’educazione di un certo tipo aiuta a formare questo sguardo. Ma qui mi devo fermare… 

Ciò che è certo è che senza senso storico non si vive la vita, ma qualche altra mostruosa deformazione, tipo l’inferno – per l’appunto – di cui ci parla sempre Calvino, proprio nell’ultima pagina di quel libro che abbiamo citato nella prima parte di questo scritto: Le città invisibili.

Ma citeremo Calvino solo per compiacere qualche buon lettore che sta facendo le valigie per Capalbio. Alcuni dovrebbero sapere che il sempre laico Italo Calvino, proprio in quelle righe, sintetizza magistralmente tutto il senso civile della spiritualità gesuita. Ma questo è ancora un altro discorso, e non è utile prendere di petto troppi pregiudizi e luoghi comuni in una volta. Specie se in prossimità di andare a Capalbio, assai contenti di quel vago avvenire che in mente, magari, hanno…

Così noi, poveri utenti del discorso, siamo chiamati a dire se vogliamo una piazza con l’erbetta o meno. Intanto abbiamo massacrato diverse piazze con generoso uso di micidiale architettura ostile: esplicitamente nemica dei bisogni più semplici del corpo umano, nella sua graziosa fragilità, bisogni che tutti ci accomunano. Guardiamo piazza delle Mercanzie, piazza San Francesco, e molte aree di importanti fermate del bus, come piazza Malpighi, piazza Minghetti o in via San Donato, la fermata davanti al Graf che ora sembra l’ingresso di Guantanamo. Chi risponderà di tanta gratuita crudeltà imposta proprio dove i corpi umani dovrebbero essere aiutati, accolti con cura, grazia, eleganza. E poi vediamo alla tv cieche masse che devastano statue che rappresentano corpi eroici, vincenti, gloriosi, leggendari, di grandi leader, testimoni, ecc.

Credo che occorra un bravo psicanalista oggi per misurare la febbre della nostra società.

Intanto, con tutta modestia, mentre il maldestro Vittorio Emanuele II è ormai dimenticato in un angolo dei Giardini Margherita, suggerisco alle statue di Marco Minghetti, Luigi Galvani, Ugo Bassi, e non di meno a certe ridicole madonnine nane messe – certamente contro la loro volontà – in cima a improbabili colonne proto o post pagane o a enormi edifici più o meno sacri, come anche a tralicci a forma di croce in cima alle montagne, di attivare le antenne e cercare con le loro sole forze di capire come potrà muoversi la violenza di settecento pecore, di qui in avvenire. Chi la provoca con mano invisibile, mi sembra chiaro, non conosce veramente nessuna pietà.

Non ho citato qui sardine, squali, cefali tonni e pesce-gatti… Ma per ora direi che basti così. Ad ogni buon conto, ci vediamo in piazza, dove il cinema ci farà sognare e incontrarci nuovamente ci spingerà magari ancora a ragionare.


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