Il giornalismo è un work in progress, racconta la verità storica dell’istante. Non si tratta di addolcire la realtà ma di rendere conto con ponderatezza di linguaggio di temi sui quali non si è ancora raggiunta una verità giudiziaria. E tuttavia non parlarne sarebbe la morte della notizia, che è il cuore di una professione che in Italia costa ancora troppe minacce e querele. Resta il fatto che grazie al giornalismo ognuno di noi può formarsi un’opinione
di Pier Francesco Di Biase, studente
Mi pare che il tema sollevato da Andrea Femia con il suo ultimo intervento a proposito della vicenda della cosiddetta ‘Villa Inferno’ sia decisamente rilevante e meriti approfondimenti ulteriori. E questo perché a mio parere la sua riflessione, volente o nolente, non indugia “soltanto” sulla qualità del linguaggio della comunicazione, ma costringe a interrogarsi anche sulla reale natura di questo linguaggio, oltre che sull’attuale “stato dell’arte” della professione giornalistica in Italia.
Mi rendo perfettamente conto che intavolare dibattiti sulla deontologia professionale in presenza di un fatto di cronaca tanto ineludibile quanto disdicevole possa apparire, se non del tutto censurabile, quantomeno inopportuno. Ma tant’è, preferisco correre il rischio. In fin dei conti, la vicenda è ormai sulla bocca di tutti e l’attitudine di una certa destra mi sembrava già indecente quando questa suonava ai campanelli di ben altri minorenni… Pertanto, appurata l’inutilità di un mio ulteriore commento in proposito, non mi resta che fare il garantista fino in fondo ed attendere eventuali risvolti legali.
Ciò di cui tuttavia non posso fare a meno, e spero che Andrea non me ne voglia, è contestare l’assunto finale del suo discorso, laddove asserisce che “abituandosi a usare un linguaggio corretto e non edulcorando ciò che non ha bisogno di esserlo, ci si ammaestrerà anche a pensare non dieci ma cento volte prima di condannare delle persone mediaticamente in una fase così anticipata di un procedimento”.
Assunto che ritengo contestabile non tanto per la sua innegabile validità linguistica e civica (oserei dire pedagogica), quanto per il fatto che, paradossalmente, è proprio l’obbligatorietà ad esprimersi con ponderatezza che, maschilismo o meno, ha costretto il linguaggio giornalistico ad “edulcorarsi” fino agli eccessi giustamente criticati da Femia nell’incipit della sua digressione.
Le condizioni in cui da tempo opera il giornalismo nostrano sono arcinote ad Andrea come a tanti altri, ma forse gioverà ricordare che il nostro paese si trova in quarantunesima posizione nella classifica sulla libertà di stampa stilata annualmente dalla Ong internazionale Rsf (Reporter senza Frontiere) e che i casi registrati di minacce a giornalisti sul nostro territorio sono stati ben 83 nella sola prima metà del 2020 (erano stati 87 lungo tutto l’arco del 2019), mentre le querele sono diventate ormai da tempo il pane quotidiano di cui devono nutrirsi opinionisti e giornalisti d’inchiesta. Dunque non ritengo improbabile che, per restare al caso di cui tanto si parla in questi giorni e al tema sollevato da Femia, il cronista che ha scelto “festino” in luogo di “violenza sessuale” lo abbia fatto, oltre che per garantismo deontologico, anche per tutelare la propria reputazione giuridica. Altro che tabloid…
E dunque, almeno a livello di libertà d’espressione, l’Italia non è l’Inghilterra e non possiamo nascondercelo. Così come non possiamo nasconderci il fatto che il giornalismo, nella pratica molto più che nella teoria, è a suo modo un’attività di imprenditoria culturale con le sue regole, i suoi pregi e i suoi difetti. Tra questi, oltre alla sacrosanta necessità di vendere copie, c’è senza dubbio l’idea che ogni informazione sia, per sua natura, estremamente temporanea, estremamente dinamica, estremamente interpretabile.
Il cronista che sceglie di raccontare una notizia piuttosto che un’altra, così come l’opinionista che la commenta, lo fa consapevole che, vero o falso che sia, quanto ha scritto al mattino potrebbe non esser più valido alla sera. In mezzo, oltre all’incessante verifica dei fatti, ci sta la benevola fiducia del lettore. Forse l’unico giudice, per chi fa questo mestiere, da cui sarebbe giusto farsi giudicare.
Nessun giornalista rischia di essere incriminato per aver riportato dati di fatto, come per esempio le ipotesi di reato formulate nelle ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip. Se nelle ordinanze si ipotizza il reato di violenza sessuale, il cronista non ha alcun motivo valido per nascondere questa informazione. Al contrario: ha il dovere di riportarla.
Più che da una presunta carenza di libertà di stampa, la tendenza a edulcorare episodi di cronaca con risvolti sessuali deriva secondo me da due fattori combinati: 1) una mentalità maschilista e bacchettona che in queste vicende tende a colpevolizzare le donne coinvolte e 2) scarsa deontologia professionale di alcuni giornalisti che dimenticano troppo spesso il dovere di completezza della notizia.