Una drammatica storia di resistenza con un testimone d’eccezione, nella piazza simbolo delle sofferenze bolognesi, dall’occupazione napoleonica ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, fino alla chiusura al pubblico di questi giorni causata dalla pandemia
di Giancarlo Dalle Donne, archivista
Nel 1809 Francesco aveva solo quindici anni. Rimasto orfano del padre Giuseppe da poco tempo, doveva contribuire al sostentamento della famiglia: la madre Teresa (a servizio presso ricche famiglie bolognesi) e due fratelli. Così accettò di buon grado la proposta dello zio Gaetano, staderaro nella dogana nella Chiesa di S. Francesco (così trasformata nel 1800, in seguito all’invasione degli eserciti francesi). Insomma, la Chiesa non esisteva più, era stata sconsacrata, era stata riconvertita in uffici finanziari. In particolare, la chiesa diventò magazzino delle merci, la sagrestia ufficio di esazione dei dazi, la biblioteca ufficio contabile. Lo zio Gaetano lo voleva con sé, a lavorare con lui. E così fu.
Dalla finestra del suo ufficio Francesco poteva osservare quello che succedeva in Piazza San Francesco (che in realtà allora si chiamava Prati di S. Francesco), come successivamente racconterà nella sua autobiografia. Francesco ricorda: “Mi trovavo in questo ufficio nel 1809, all’epoca dei briganti, che due volte al giorno, mattina e dopo pranzo, venivano a fucilare quattro cinque alla volta in questo prato, che avevano fatto un terrapieno dicontro alla porta piccola della chiesa di S. Francesco, e fucilarono anche due o tre parroci di montagna”. Dovevano essere puniti per le continue scorribande, sia in pianura che in montagna, e addirittura, in luglio, avevano osato tentare di impossessarsi a mano armata di Bologna, sotto la guida del “capo brigante” Prospero Baschieri. Ma furono fermati grazie a un “cannonaccio” installato in tutta fretta dalla Guardia Civica alla Montagnola.
Francesco ricorda anche i fatti dell’8 settembre dello stesso anno: era un giorno festivo e lui era andato in piazza quando, alle 9 del mattino, dalle porte del palazzo uscirono tre condannati alla fucilazione. Era un giorno festivo, sì, ma “erano talmente tanto frequenti le fucilazioni che non si abbadava che fosse il giorno della Madonna”. I tre “briganti” erano Giacomo Mazzetti, “un benestante di montagna, ben vestito, col cappello in testa, e con le scarpe di pelle bianca”, uno chiamato “Pagatore” e un parroco di montagna. Direzione Prati di San Francesco, verso la fucilazione.
In particolare il Mazzetti si era macchiato di un atto giudicato gravissimo. Aveva firmato e diffuso un “Avviso al popolo dell’Itala” (l’unica testimonianza scritta in proposito): “L’armata degl’Insorgenti solo combatte perché il Pontefice sommo dicono arrestato. Le chiese sono fatte stalle. Li religiosi esuli dai loro conventi. Le vergini deflorate sotto assillo. Il patrimonio di Cristo derubato. Li poveri ingiuriati. Perciò a fine di vendicare l’onore di Dio prima, poi della Patria, invita tutti, con questo fine a prender l’armi”. Proclama che gli costò la vita.
Commenta Francesco: “Ah! Se potesse parlare quel terreno vicino alla porta piccola quanto sangue si sia imbevuto per causa che il governo voleva mettere alla campagna il dazio sulla macina del loro frumento”. Sì, perché le cause dell’“età del brigantaggio” del 1809-1810 – periodo densissimo e molto poco studiato, con un numero impressionante di morti – sono senz’altro da ricercarsi nel dazio macina e nella coscrizione militare obbligatoria ma, più in generale, nell’opposizione di vasti strati di popolazione alla “costruzione dello Stato”. Ma, ovviamente, non è questa la sede per parlarne.
È invece la sede per raccontare meglio la storia di Francesco, perché negli anni successivi si andò a intrecciare con la storia di Bologna, e di svelarne l’identità. Francesco faceva di cognome Majani, e insieme alla madre Teresina fu il fondatore della ditta Majani, quella del cioccolato, il “Laboratorio delle cose dolci”, con sede prima in vicolo Colombina, poi in via Carbonesi e nella Palazzina Majani di via Indipendenza. Che non nasce nel 1796, come si dice ufficialmente, ma solo alcuni anni dopo questi fatti, nel 1813. Era infatti un vezzo molto in voga in quegli anni retrodatare la data di fondazione della propria attività e magari inventarsi illustri, e improbabili, soci stranieri (come nel caso ad esempio della Buton).
Alcuni anni dopo le vicende del 1809, che lo videro testimone oculare di fatti drammatici, Francesco Majani diventò così protagonista di una delle storie imprenditoriali più interessanti della Bologna dell’800.
In copertina: Piazza San Francesco in un’incisione del 1794