L’impegno dei singoli cittadini non basterà per mitigare le conseguenze del cambiamento climatico. Deve, invece, essere accompagnato – e favorito – da scelte politiche forti e decisive, capaci di modificare radicalmente e in pochi anni il volto della città
di Marco Palma, cittadino
Lo stato di salute del nostro pianeta ha fatto capolino dalle finestre di Palazzo D’Accursio. Con uno striscione, infatti, l’amministrazione ha voluto ricordare (o ricordarsi?) che, ormai un anno fa, il Consiglio comunale dichiarò lo “stato di emergenza climatica”.
Fare informazione, diffondere dati, accrescere la consapevolezza della comunità locale è un’azione necessaria. Ma, per quanto importante, l’impegno dei singoli cittadini non basterà per mitigare le conseguenze del cambiamento climatico. Deve, invece, essere accompagnato – e favorito – da scelte politiche forti e decisive, capaci di modificare radicalmente e in pochi anni il volto delle nostre città.
Da questo punto di vista, quello striscione non fa che evidenziare la distanza tra quanto si dice e quanto si fa. Che Bologna dichiari l’emergenza climatica è, di per sé, insignificante. Ci sono una moltitudine di studi scientifici internazionali che lo fanno da anni. Sarebbe un atto significativo se, assieme alla dichiarazione, Bologna realizzasse azioni innovative e rivoluzionarie capaci di porre la città tra quelle che guidano la transizione in Europa e nel mondo.
Un esempio? Il passante autostradale. Se siamo in emergenza climatica, la logica imporrebbe una rapida transizione dalla mobilità privata su gomma ad altre modalità di trasporto capaci di diminuire drasticamente il numero di camion e automobili che circolano. Invece, una nuova distesa d’asfalto sulla quale far correre un maggior numero di veicoli è ancora – e anacronisticamente – un’opera definita strategica dalla stessa amministrazione comunale.
Eppure, nel conteggiare le emissioni inquinanti, Bologna si fa carico di un fardello legato proprio a quell’autostrada che si vuole allargare. Una sorta di servitù di passaggio che da decenni avvelena la città, senza lasciarle in cambio alcunché, se non la notorietà dovuta all’essere un luogo di transito obbligato per quanti si spostano da nord a sud e viceversa. L’emergenza climatica dovrebbe spingere questa città a pretendere dalle istituzioni regionali e nazionali il blocco dei progetti legati al nodo autostradale, per dedicare le risorse a investimenti finalizzati a ridurre il traffico veicolare, rafforzando il trasporto pubblico per i pendolari che si muovono verso la città o la attraversano e spostando i container dagli autoarticolati ai treni.
Quello della mobilità è un tema che investe anche la dimensione urbana della città. In questi mesi abbiamo assistito a uno stucchevole dibattito ogni volta che pochi posteggi per automobili (a volte in doppia fila) lasciavano il posto a una corsia ciclabile o a uno spazio pedonale. Ma il nodo non è come bilanciare queste scelte con le esigenze degli automobilisti; il tema è come far scendere dalle automobili le persone e farle muovere in bici, a piedi, sui monopattini o sui mezzi pubblici. Come fare in modo che, tra un decennio, i bolognesi posseggano la metà delle auto di cui sono proprietari oggi. Un cambiamento che avviene quando cresce la consapevolezza, ma soprattutto quando i mezzi alternativi alle quattro ruote diventano facili da usare e migliorano la vita dei cittadini; cosa che non accadrà fin quando, per fare un paio di esempi, le strade saranno organizzate pensando prima di tutto alle auto e i tempi semaforici verranno calcolati per far scorrere velocemente i mezzi a motore, rallentando e fermando quelli a pedali.
In questi mesi abbiamo imparato che alle emergenze si risponde con azioni straordinarie e, fino a quel momento, impensabili. Affrontare l’emergenza climatica significa, tra le altre cose, rendere efficienti gli edifici pubblici e privati; aumentare la produzione di energia da fonti rinnovabili; svuotare le strade dalle auto e fare spazio a pedoni, ciclisti, anziani che chiacchierano e bambini che giocano; moltiplicare le aree verdi e fermare il consumo di suolo. Ma significa, anche, rendere questa città più accogliente per chi la vive, investendo sugli spazi di comunità, sulle realtà che contrastano la speculazione edilizia praticando la riqualificazione e il recupero di aree urbane abbandonate e su quanti, in ogni quartiere, si impegnano per realizzare sussidiarietà, cultura e inclusione.
Abbiamo, su questi temi, decine di idee, riflessioni e proposte avanzate da cittadini, comitati, movimenti, associazioni e professionisti. Abbiamo gli strumenti tecnici e normativi. Abbiamo un tessuto sociale che vuol dare un futuro alle nuove generazioni e costruire una città più bella e vivibile.
E poi, abbiamo uno striscione verde appeso alle finestre di Palazzo D’Accursio. Una coperta troppo corta per nascondere la distanza – e la contraddizione – tra ciò che si dice (o scrive) e ciò che si fa.