Già docente di Pedagogia all’Università di Bologna, Dimitris Argiropoulos lavora da trent’anni in Italia come educatore, occupandosi in particolare di minoranze tra cui quella per eccellenza, i rom. A lui abbiamo chiesto un giudizio sulle politiche portate avanti nei loro confronti, in Italia e in città, e suggerimenti per il futuro
di Mery De Martino, consigliera di quartiere Porto-Saragozza
Dimitris, di cosa ti occupi e come conosci le minoranze rom?
Sono un educatore, mi confronto con le disabilità e con le minoranze, in particolare i rom, che ho studiato sul territorio, collaborando con loro. Ci siamo accordati su alcune cose e cerchiamo di realizzarle, andando oltre un esistente privo di prospettive. Li ho frequentati in ambienti estremi, soprattutto in quell’ambiente estremo chiamato campo “nomadi”.
Chi sono i rom? Quanto ne sappiamo realmente?
Sfatiamo un mito: il binomio “nomadismo/stanzialità”, con cui sono state studiate le popolazioni rom, arriva da chi offre solo paternalismo. Ce lo spiega la storia.
Zingaro vuol dire intoccabile. Un termine dato dai greci dopo una migrazione massiccia durata 200 anni. I rom sono i primi a interrompere il paradigma bellicoso di insediamento: arriva una popolazione e scaccia l’altra. La loro presenza non è conflittuale, portano notizie, tecnologia, arti (es. la lavorazione dei metalli).
Tuttavia, i problemi ci sono: diventano cristiani, ma la loro conversione non è disciplinata, non accettano i sacramenti; non presentano la loro lingua e questo diventa elemento di distanza; con le loro donne non ci si può sposare. Queste ragioni portano i greci a definirli intoccabili, con cui interagire finché si può. Un equilibrio sociale che si interrompe con la fine dell’impero bizantino quando varie comunità, tra cui i rom, si spostano, arrivano in est Europa dove vengono schiavizzati. Una schiavitù di tipo etnico che li porta alla fuga.
Quindi, tornando all’inizio, quello che muove le comunità zingare non è il binomio nomadismo/stanzialità, ma fuga/tregua. Dove hanno trovato situazioni di pace sociale, come in Grecia, si sono fermati e integrati. Tra loro ci sono ricchi e poveri, svolgono professioni e mestieri di tutti i tipi, alcuni sono in accademia.
In Italia e a Bologna sono in tregua?
Sono molto discriminati e i luoghi in cui vivono sono dei ghetti, un apartheid istituzionalizzato. Per poter passare ad un altro tipo di organizzazione sociale si dovrebbe dare loro l’opportunità di entrare in contatto con altri paradigmi sociali concreti e le politiche dovrebbero cambiare radicalmente. Invece si continua con investimenti sui campi “nomadi” che sono investimenti settari, per “diversi”.
Con la Legge Regionale 11 del 2015, la prima giunta Bonaccini ha recepito le linee guida europee per l’inclusione sociale di rom e sinti, tra le quali c’è la trasformazione dei campi nelle cosiddette “microaree”, ossia aree sosta pubbliche di dimensioni più contenute in cui far risiedere nuclei familiari. Pensi che questo intervento sia stato un miglioramento?
È sempre un campo all’aperto fondato sulla logica delle roulotte, però più piccolo per renderlo più familiare. Questo significa non conoscere la loro organizzazione familiare e sociale. Se studi il ritmo di crescita delle loro famiglie, infatti, sei in grado di calcolare anche il tipo di disagio che deriva dalla “microarea”.
Per esempio, quando una coppia rom o sinti si sposa si congiunge alla famiglia del marito. Se prendiamo una famiglia, come minimo già composta da 12-20 membri, e da un campo grande la mettiamo nella microarea, in 2 e 3 anni diventano molti di più e la dimensione della microarea non è più sufficiente.
Ci sono progetti di inserimento per la vita in appartamento?
Ci sono esperimenti di vita in appartamento che vanno abbastanza bene, anche nei casi dove si riscontrano conflittualità. I percorsi di integrazione sono complessi e le regole dovrebbero servire a regolare i rapporti, non essere impostate dall’alto.
Se nel campo nomadi non pago le utenze e in appartamento ho improvvisamente sia affitto che utenze, metà del mio stipendio va via in quello e anche se mi dicono che questa è integrazione, che è una regola, è normale che si crei conflittualità. La banalizzazione dell’integrazione, il renderla un meccanismo di costi, ne ostacola la realizzazione.
Per rendere il conflitto un meccanismo di progresso, il progetto non deve essere perfetto ma perfettibile e l’operatore non deve solo applicare “regole”, ma deve poter rivedere quello che fa riadattandolo alle condizioni e ai tempi di vita delle persone.
Quindi gli interventi prioritari secondo te quali dovrebbero essere?
Innanzitutto chiudere i campi e fare accordi non impositivi, orientati all’educazione sia del diretto interessato sia della popolazione circostante.
Poi qualificare il personale dell’Amministrazione per interventi, mirati e permanenti, nei quartieri e nei campi “nomadi”.
Bisognerebbe anche trasformare l’edilizia pubblica da mono a interculturale, sia a livello urbanistico sia nella sua forma architettonica interna.
Infine, proporre Formazione Interculturale agli insegnanti.
Si parla spesso di recupero di aree verdi e di edifici, luoghi in cui a volte si creano degli insediamenti. Oltre a pensare giustamente a salvare il verde, alle riqualificazioni, bisognerebbe parlare di più anche di chi in quei luoghi vive in maniera precaria e di come fare per aiutarlo?
Certo, ma la politica oggi è incapace di mettere al centro la persona che vive in povertà. Dire cosa facciamo con questi che sopravvivono alla giornata richiede altri valori. Si è persa l’idea di giustizia e riscontro una profonda incapacità della politica di connettersi con le persone.
Photo credits: Miray Bostancı