Quella volta che Umberto Eco disse: «Per me una pizza margherita»

Dams, fantastici quegli anni. Noi studenti vivevamo il momento, immergendoci nel piano di studi e senza essere pienamente consapevoli che avremmo vissuto una stagione irripetibile, a contatto con personalità di primo piano del mondo delle arti, della musica e dello spettacolo

di Fulvio De Nigris, giornalista


2021, i cinquant’anni del Dams. Quale migliore occasione di “ravanare” nei cassetti dei ricordi. Eravamo un manipolo di coraggiosi studenti che volevano fare un’impresa: espugnare un corso di laurea alternativo, un abito sartoriale che vestiva la nostra creatività, l’arte e il presunto talento di persone che non si erano mai identificate in altri percorsi di studio.

Provenivo da quattro anni di Medicina, tra Siena e Bologna: strada intrapresa più per compiacere mio padre (non medico) ed emulare i fratelli (futuri medici) che per vocazione. Del resto disegnavo fumetti, mi dilettavo di teatro, facevo le imitazioni di personaggi e professori (mi chiamavano con eccessiva enfasi il Noschese della V^C): cos’altro avrei potuto fare?

ll Dams delle origini affascinava per la notorietà dei docenti, l’aria che si respirava e l’entusiasmo di compiere qualcosa mai fatto prima. Ma se qualcuno aveva l’ardire di chiedere “cosa faremo poi?” i discorsi diventavano fumosi, uscivano parole decontestualizzate: “Bibliotecario”, “operatore culturale” o, sussurrando, “insegnamento”, che però lasciava intravedere qualche integrazione (quale poi? Boh…) al piano di studi.

In realtà Benedetto Marzullo (noto anche come “Fra’ Marzullo campanaro din don dams”) qualche idea chiara l’aveva e la riaffermò in un’intervista che gli feci all’inizio degli anni ‘90 per l’emittente bolognese Rete 7 (oggi Ètv), in cui chiesi se si fosse sentito in qualche modo responsabile di quegli studenti e delle loro aspirazioni confuse.

«Responsabile di nulla – mi rispose – neanche di aver inventato il Dams, che come altri eventi positivi è legato a un momento storico. Il progetto si mise in moto nel ‘68, in un momento in cui tutti gli enti locali, che si stavano formando per legge, prevedevano quelle figure di operatori culturali che noi ci stavamo apprestando a produrre attraverso l’unificazione di varie attività culturali e artistiche. Se gli sbocchi erano discutibili allora e fallimentari oggi non è perché gli studenti erano figli di una università minore, ma perché l’università in generale non è riuscita a crescere».

Noi intanto vivevamo il momento, immergendoci nel piano di studi, inconsapevoli che avremmo vissuto una stagione irripetibile, a contatto con personalità di primo piano delle arti, della musica e dello spettacolo.

Nell’intimo, per noi che avevamo scelto l’indirizzo spettacolo, un’aspirazione era fare l’attore o il regista, anche se il corso non aveva queste intenzioni. Per questo i laboratori di Arnaldo Picchi e Luigi Gozzi – assistenti di Eugenio Squarzina, docente di “istituzioni di regia” – erano molto frequentati. Oltre alla teoria era infatti contemplato il saggio di fine anno, frutto di un impegnativo lavoro. La chiesa sconsacrata di Santa Lucia, col pavimento in terra battuta, era stata designata come luogo teatrale di questi saggi.

Ricordo uno spettacolo di Luigi Gozzi con Franco Mescolini e nel backstage i suoi racconti dell’esperienza maturata e i consigli a noi studenti principianti. Percorso che si concluse in un laboratorio con Arnaldo Picchi, in un garage attrezzato a sala prove, con la musica a palla di “Pat Garrett e Billy the Kid” di Bob Dylan e la messa in scena de “Una stagione all’inferno” di Rimbaud.

Il teatro era un po’ dentro di noi e da quell’esperienza fondammo una nostra compagnia, “Il Cerchio”, con Gerardo Guccini (oggi docente di teatro in quel Dams che lo vide studente), Ferruccio Fava (operatore culturale), Adriano Dallea (regista), Massimo Pongolini (attore), Antonio Taormina (docente universitario, esperto in formazione al management culturale), Roberto Pignoni (giornalista), Stefano Cavedoni e Freak Antoni (Skiantos). Quest’ultimo era il tecnico luci, ma convertì il suo ruolo al lancio di volantini tra il pubblico durante una rappresentazione diurna de “Le Croniche della Malcontenta”, in occasione dell’inaugurazione del Monumento alle donne partigiane di Villa Spada.

Poi demmo vita al nostro primo e forse più importante spettacolo, “Zio Paperone” di Augusto Boal. Conosciuto Dario Fo a Bologna, fummo invitati a Milano per rappresentarlo alla Palazzina Liberty. Ricordo assieme ad Antonio Taormina l’incontro preliminare con Franca Rame, che voleva testare la nostra fede politica: «Come siete orientati politicamente?». Risposi con un generico «siamo di sinistra», rafforzato da Antonio che disse con ampio gesto della mano: «Ma sinistra sinistra!».

Anni dopo, quando diventai operatore culturale alla Provincia di Bologna con l’allora assessore alla cultura Learco Andalò, realizzammo un’iniziativa con Umberto Eco. Al Dams avevo seguito alcune sue lezioni (c’è una foto molto nota di lui seduto a una riunione studentesca e io sono tra gli studenti, appoggiato al muro) ma non avevo dato il suo esame: sentivo una certa sudditanza psicologica nei suoi confronti e in quelli di una materia, la semiotica, che mi sembrava così ostica. 

Quando andammo a mangiare ordinò una pizza margherita. Quella normalità mi fece effetto, fu un modo per riconciliarmi con lui. Ne avevo avuto tanta paura durante gli studi. Parlandoci a quattr’occhi mi resi conto della sua grande umanità.


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