Sondaggi, oroscopi e altre strategie politiche

Le recenti rilevazioni degli umori elettorali hanno rinfocolato le polemiche interne al Pd sulla strategia da adottare e le alleanze da coltivare. Tuttavia, con buona pace dei dirigenti nazionali e locali, non sarebbe disdicevole se a scegliere la sorte del centrosinistra dovesse essere ancora una volta il suo popolo, nel rispetto dello statuto

di Pier Francesco Di Biase, caporedattore cB


Quando lunedì sera ho visto il consueto sondaggio politico del tg La7, non ho potuto fare a meno di bearmi per qualche istante della spietata razionalità numerica che mi compariva davanti.  

I sondaggi, si sa, hanno spesso e volentieri la stessa attendibilità dei tarocchi, nonché lo stesso destino degli oroscopi: ci si crede finché assecondano ciò che desideriamo e in caso contrario li si taccia di insopportabile falsità. Pertanto, sarebbero materiale da maneggiare con cura. Ma facendo finta che quanto ci dicono i sondaggisti sia vero, il quadro che viene fuori mi pare abbastanza eloquente.

Al netto di errori statistici e personalismi vari, i quattro grandi partiti del sistema politico italiano (FdI, Lega, M5S, Pd) graviterebbero tutti intorno a una forbice tra il 15 e il 20%. In questo scenario sembrerebbe particolarmente in sofferenza il Pd, che con la discesa in campo di Conte come leader dei Cinque Stelle passerebbe da seconda a quarta forza parlamentare. E qui le carte finalmente si scoprono e il dubbio si innesca, coinvolgendo anche la situazione bolognese.

La scelta “atroce” di cui sopra, plasticamente rappresentata dalle recenti crisi isteriche in seno alla direzione nazionale del partito, è verso quale orizzonte muovere da qui in avanti il Pd. Da un lato chi vuole invertire la rotta e puntare al centro, eterna chimera politica, magari in un nuovo rassemblement che contempli, oltre ai liberal-qualcosa di Italia Viva e Azione, anche qualche pezzo di Forza Italia possibilmente più potabile del suo padrone. Dall’altro chi preferisce proseguire la navigazione mantenendo la barra a sinistra, curando l’alleanza con i pentastellati e ricercando un’unità e un’identità perdute da anni con le altre forze minori e minoritarie del socialismo nostrano, oltre che con le varie anime della rappresentanza sindacale.

A rileggere in questa chiave il dibattito sulle elezioni amministrative che ormai da mesi si protrae in città e su queste pagine, Bologna si rivela per l’ennesima volta epicentro premonitore dei destini progressisti.  Che cos’è infatti il dualismo tra Alberto Aitini e Matteo Lepore, approdo attuale di questa discussione estenuante, se non una fedele riproduzione in scala locale di quanto sta succedendo al Nazareno?

Rispondendo a chi gli chiedeva un conclave in cui discutere la linea e la segreteria, Zingaretti ha ribadito che di congresso e primarie non vuol sentir parlare fino al 2023, quando con la legislatura scadrà anche il suo mandato da segretario. Tuttavia, con buona pace dei dirigenti nazionali e locali, non sarebbe disdicevole se a scegliere la sorte del Pd dovesse essere chiamato ancora una volta il suo popolo, a Roma come a Bologna. E perché questo accada non c’è altra strada che quella prevista dallo statuto.

A Bologna il congresso si deve ancora tenere, e in passato sia Aitini che Lepore hanno avuto un atteggiamento ondivago rispetto alle primarie. C’è poi quel 40% locale vaticinato dai sondaggi, ben lontano dalla scarna percentuale nazionale, che potrebbe spingere la dirigenza verso un atto di mera autodeterminazione interna. Ma per incanalare sui giusti binari un treno che altrove sembra deragliare, è più che mai necessario coinvolgere i cittadini in un momento di chiarezza collettivo. E per capirne le ragioni non serve certo un indovino…


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