Le sfide che sta affrontando il nostro mondo si possono osservare anche restando a pochi metri da casa, in ossequio all’ultimo Dpcm. Cambiamenti reali del nostro vivere quotidiano, che ci impongono di ripensare il sistema in un’ottica più redistributiva, di collaborazione reciproca
di Luca Corsolini, giornalista
Abito da anni in San Felice ma fino a prima che scoppiasse il Covid ero un pendolare quotidiano con Milano. Quotidiano e felice: grazie all’alta velocità arrivavo in ufficio la mattina e a casa la sera prima di tante persone che lavoravano con me ed erano, invece, prigioniere di un traffico che i tanti Frecciarossa disponibili mi hanno risparmiato.
Poi il Covid ha ristretto il mio orizzonte, e la strada di casa che già conoscevo è diventata, come per tanti altri immagino, un luogo familiare, con incontri che hanno aggiunto il sale della frequentazione laddove i tempi primitivi e severi dei vari lockdown ci hanno fatto perdere quasi tutti i sapori. Non solo: quella strada all’improvviso svuotata di famiglie italiane e straniere, tante straniere, in vacanza da Airbn’b, e svuotata pure di altri cittadini temporanei, studenti o persone in trasferta di lavoro, è diventata un po’ laboratorio e un po’ aula scolastica dove, se non imparare, almeno registrare i tanti segnali mandati dall’economia da marzo dell’anno scorso. Le lezioni più interessanti mi sembrano tre.
Puntata al bar, ai tempi dell’asporto
Vedo, nella mia solita tappa di ogni giorno, che il bicchiere di carta per il cappuccino non ha, come la tazzina, il marchio del caffè servito nel locale. Chiedo come mai: l’azienda non ci ha pensato? È un classico la tazzina sponsorizzata, e noi clienti sappiamo benissimo che così è cominciata l’attività: il bar deve cominciare dal caffè, a quel punto è normale che il gestore chieda allo stesso interlocutore le tazzine, contenuto e contenitore, impegnandosi in un rapporto di reciproco interesse. Lungo, tanto per usare termini precisi, non ristretto. Mi risponde il barista: l’azienda del caffè ci chiede 15 centesimi a bicchiere ( le tazzine invece sono già pagate da tempo, ovvio ), io ho trovato questa fornitura a 10 centesimi al pezzo. È facile anche per me fare il conto: 100 caffè in un giorno, e non è sempre così, valgono 5 euro. Intanto, a quasi tutte le ore, c’è fila davanti al negozio Nespresso in Piazza dei Celestini.
La lezione, facile, è che è cambiato tutto in poco tempo, anche un’abitudine atavica adesso è misurata sulla scala di una difficile quotidianità. I ristori, che pure sono fondamentali per la sopravvivenza di certe attività, non bastano e sono se non sbagliati almeno pericolosi appunto perché pretenderebbero di garantire continuità che oggi non ha più nessun business: prima era un flusso, adesso funziona tutto a intermittenza, e non è colpa solo dei Dpcm. Le nostre case sono diventate bar, ristorante, cinema: riduttivo pensare che siano stata adattate solo allo smart working.
I negozi sfitti
Facile dire che ce ne sono sempre di più: è come se un signore fino a pochi giorni brillante, in perfetta forma, mostrasse all’improvviso capelli bianchi e tante rughe. Ma ci sono anche, in via San Felice, dei negozi che si sono spostati di pochi metri. Personalmente li valuto la miglior risposta a una delle lezioni che ci ha impartito il Covid.
Dire che un virus si combatte con comportamenti virali significa dire che siamo entrati nell’era della distribuzione, anche delle responsabilità e dei comportamenti, e stiamo lasciando l’era della esclusività per entrare in quella della condivisione. È la sharing economy, bellezza.
È un principio che ricordiamo dai tempi della scuola, quando imparammo la proprietà distributiva. Prima parlavamo di un’attività quotidiana, un affitto non è questione di dieci minuti al bar, eppure il business è cambiato pure qui. Oggi, non solo per colpa del Covid, è la domanda a generare l’offerta, come successo con Airbn’b. E oltre tutto l’offerta è superiore alla domanda.
Quei negozi che hanno traslocato solo di pochi metri mi suggeriscono un quesito per gli affittuari: la differenza tra un affitto di 1.000 euro di un negozio vuoto per sei mesi e un affitto per sei mesi a 500 euro qual è? La risposta secca degli affittuari è facile: ballano tremila euro, la differenza tra i sei richiesti e i tre incassati. Il Covid per la stessa risposta suggerisce un conto diverso: la differenza è da calcolare non tra richiesta e incasso, ma tra incasso reale e zero, ovvero il negozio vuoto. Che sarà sempre più difficile riempire appunto perché ci sono più locali che attività.
I cartelli sulle vetrine
San Felice è la strada di Tassinari. Mi succede spesso con persone di fuori Bologna di spiegare dove abito parlando di questo negozio che in effetti è un gioiello. Sul sito, ho appena ricontrollato, c’è scritto che la clientela è sparsa in tutto il mondo: “Tra le piazze più in sintonia ci sono incredibilmente New York e la California!”. Tassinari dice anche di trovarsi in quella che una volta era la zona popolare delle botteghe. In effetti basta attraversare per trovare un negozio di scarpe più abbordabile economicamente. E sulle vetrine di quel negozio, adesso ovviamente chiuso, da qualche giorno c’è un cartello: si fanno consegne a domicilio. Dopo i delivery per cena e le spedizioni transoceaniche via web, si consegnano a domicilio persino le scarpe. Poi non ditemi che dalla strada di casa mia non si capisce come vanno l’economia e il mondo, se persino un oggetto che siamo abituati a provare viene affidato ai corrieri a cui presto daremo cittadinanza onoraria.
Splendido