Muore una firma de “l’Unità” che fu… quante storie da raccontare

Rocco Di Blasi se ne è andato a 73 anni dopo breve ricovero che una settimana fa aveva annunciato su Facebook: «Ragazze e ragazzi, ho avuto una rottura di femore. Spero che possiamo risentirci presto». Non era solo un banale incidente domestico, purtroppo. La sua presenza da caporedattore a Bologna ha coinciso con una fase gloriosa della testata. Il ricordo di una collega è una delle migliaia di piste che si potrebbero seguire per raccontarlo, insieme a un mondo che non c’è quasi più… ma resiste

di Raffaella Pezzi, giornalista


“Raffa, ma ti ricordi quando venisti a Napoli? Ma poi, che volevi da me? Mah”. Rocco me lo chiedeva, di tanto in tanto. Era una specie di gioco, di ripasso della memoria. Nessuno dei due però si ricordava perché io, di Milano, fossi andata da lui, paganese trapiantato a Napoli, a chiedergli di collaborare con una rivista lombarda che parlava di industria. 

Era circa il 1977, io e Massimo Mucchetti facevamo un mensile del Pci, che aveva scoperto l’importanza dell’impresa e ci fece una rivista nata a Milano. Rocco di Blasi era allora il capocronista dell’Unità di Napoli. Volevo chiedergli di fare per noi dei servizi giornalistici. Ed è questa la cosa strana, che nessuno dei due a distanza di anni riusciva a spiegarsi.

Ci eravamo piaciuti, però. Io timida e rigida, tanto da nascondergli che la sera sarei rimasta a cenare a Napoli, un panino al bar per spendere poco. E lui esuberante, simpatico con quel suo modo di ridere che sempre seguiva – come avrei scoperto molti anni dopo – grandi sfuriate quotidiane.

Allora, a Napoli, per me Rocco era un giornalista importante di un grande giornale, in prima linea in una grande città con tanta cronaca, indaffarato eppure allegro e disponibile a incontrare me.

Dieci anni esatti dopo anch’io ero in quel grande giornale, in cronaca a Bologna. Lui caporedattore a Roma. All’inizio del 1987 ci scambiammo le città, io fui mandata all’Unità di Roma e Rocco a Bologna, a dirigere l’inserto regionale. 

Appena arrivato, seppe da una cara collega e amica comune che dopo due mesi io già volevo scappare da Roma, tornare su, a Milano o a Bologna. Rocco mi chiamò: “Ho bisogno di un vice, se lo chiedo a Chiaromonte tu vieni?”. Non aspettavo altro. Lasciai Roma e andai a sedermi al suo fianco, nello splendido open space senza divisori di via Barberia.

Ecco. Iniziai allora a lavorare con Rocco e fu quello uno dei periodi più belli della mia vita all’Unità. Che era un bellissimo e stimolante collettivo di politica e di lavoro. Ma non sempre, diciamo così, agevole.

Rocco Di Blasi era un bravo giornalista, un capo esigente e creativo. Pieno di idee, le pretendeva a ritmi serrati anche dagli altri. E non sopportava i “buchi”, le notizie che altri giornali avevano e noi no. Diventava cattivo. Urlava. Quando urlava io contavo: dieci secondi, poi scuoteva la testa affranto, arricciava il naso e rideva: “Vabbuò…”.

Ogni tanto gli chiedevo perché urlasse sempre con me e pochi altri: “E con chi devo arrabbiarmi?”

Aveva il gusto della notizia. A me piacevano i temi del lavoro, delle fabbriche che cambiavano orari, produzioni, cultura. Gli proposi di far svolgere, con poca spesa, un’indagine sulle condizioni e le aspirazioni dei lavoratori. “Purché vengano fuori tante notizie, da farci dei titoli”.

Tutte le proposte passavano, purché diventassero locandina per l’edicola.

A pensarci oggi potevamo farlo, siamo stati fortunati. Nel giornale buttavamo passione, la notizia era notizia ed era fatica. Non dovevi rincorrere la rete, i blog, postare video, aggiornare l’online. Avevi il tempo per trovare, verificare e convincere che quella tua notizia valeva. Noi dovevamo convincere Rocco. Che aggrottava la fronte, arricciava il naso e siccome non c’era nulla da urlare sorrideva soddisfatto. 

Finita l’esperienza bolognese, si è tuffato con la solita vulcanica passione nell’avventura del Salvagente. Ma a Bologna poi è tornato, la seconda volta per amore di Janna.


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