Come con Salvini, scatta verso Renzi la difesa contro l’assedio alla sinistra della città. La minaccia però stavolta pare non venire da destra ma da quella serpe in seno che pure fu accolta (pur brontolando) e poi condannata (senza autocritiche). Ricalcare l’ennesima messa in scena sarebbe una trappola ideologica che impedirebbe una difficile strategia di alto compromesso. Meglio resistere a tentazioni da Guelfi e Ghibellini e pensare a Bologna ancora come un laboratorio: del NOI, magari
di Gabriele Via, poeta
Bologna: si accende la carbonella per la graticola delle Primarie al tempo del Covid. E, celebrato il 25 aprile, si guarda ora al Primo maggio. Un tempo ebbro e gioioso bagno di folla. Il lavoro c’era, la lotta pure, e – nella vivacità democratica e repubblicana – la dialettica traversava le masse dei lavoratori. Ora non è così.
A giudicare dal brontolio a margine dei lavori stradali pare si possa già dire che c’è la chiara tendenza a voler leggere la discesa in campo di Isabella Conti come il prefigurarsi di un assedio alla sinistra della città da parte di Matteo Renzi.
Ed ecco la pronta chiamata a difendersi, ancora una volta, da una minaccia esterna. La volta scorsa toccava difendersi da Salvini, la minaccia veniva da destra, e apparvero come per miracolo in piazza le inattese Sardine, regalando un’effimera speranza alla vecchia Bologna, all’Emilia-Romagna, all’Italia tutta. In realtà fu solo un ripido scivolo contropopulista per l’elezione di Stefano Bonaccini (attendiamo smentite dalla storia). Prova ne sia che le Sardine non hanno rinnovato molto nella strutturale crisi di partecipazione che affligge la generazione e la città.
Ora però il nemico pare non venire da destra, ma da quella strana serpe in petto che tanto rapidamente fu accolta in città (pur col solito brontolare autoctono) quanto sbrigativamente condannata, senza un minuto di autocritica, all’esaurirsi della fulminea parabola politica di Matteo Renzi.
Personalmente credo che il tentativo di instaurare ora questa messa in scena costituisca una pericolosa trappola ideologica. Ricalca infatti la dolorosa irriducibile mania, a Bologna particolarmente vivace nei secoli, di impedirsi ancora una volta una difficile strategia di alto compromesso (non siamo del resto in una fase di unità nazionale?) puntando a un’assurda lotta fratricida.
Il paradosso vuole che se oggi Isabella Conti, sindaco amato e apprezzato della vicina San Lazzaro di Savena capace di mettere insieme il più alto schieramento, tradizionalmente espressione della sinistra, è anche autorevole esponente della formazione politica creata da Renzi nel momento in cui uscì dal Partito Democratico, ecco che proprio l’attuale assessore alla cultura di Bologna, Matteo Lepore, fu invece un convinto sostenitore di quello stesso Renzi sia prima che quando, dopo le primarie del 2013, divenne segretario del Partito Democratico e quindi primo ministro.
Se dunque affrontassimo la situazione di Bologna considerando la battaglia Conti-Lepore come rappresentazione del conflitto Renzi-Letta, certamente avremmo facile materia per slogan da stadio, ma con ogni probabilità perderemmo l’occasione di cimentarci con maturità nell’evoluzione politica di questi ultimi anni, che ci chiede di guardare in faccia lo stile e le scelte amministrative locali dei nostri rappresentanti.
Inoltre, appiattire tutto a una rappresentanza dello scontro fra i due grandi nemici nazionali, ora che, come un Bentivoglio che rientri dall’esilio, Letta verrà a Bologna a sostenere Lepore, significherebbe stabilire la piccolezza di due comparse che nel loro discorso parlano invece e con ragione della grandezza storica e attuale della nostra città.
Sapremo resistere a questa tentazione da Guelfi e Ghibellini? Sapremo pensare nuovamente Bologna come laboratorio innovativo e plurale, in vista di quel cambio di passo che proprio nella città già vide il luogo privilegiato di costruzione di nuovi modelli?
Saremo capaci di evitare la china fratricida, e le false prospettive tanto sardine quanto grilline?
Saremo sedotti dalla tentazione di fare tifo a un maschio Io Io Io, o vorremo costruire veramente un plurale partecipato NOI?
Riusciremo ad ascoltarci e collaborare da cittadini maturi senza la solita carnevalata macabra delle belle bandiere?
Forse fare memoria viva del 25 aprile e del Primo maggio, senza trasformare la cosa in vuoto rituale, ci chiede ora una maturità del genere.
In copertina: Giovanni Silvagni, “Eteocle e Polinice”, circa 1800
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