Ci si mescolava, da Vito, tra famosi e infami, si tirava tardi. E quante chiacchiere. Non so se la trattoria potrà sopravvivere. Per certo, quell’epoca se n’è andata da un pezzo e “tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia”
di Beppe Ramina, giornalista
Sul finire degli anni Settanta, forse nel 1978, lessi un annuncio, presi appuntamento e trovai lavoro come cameriere di sala alla trattoria da Vito, in Cirenaica, prima periferia di Bologna. Avevo in curriculum alcune stagioni rivierasche e la sala, per quanto stipata di tavoli e sedie, non era di dimensioni tali da preoccupare.
Vito Pagani, con l’immancabile stuzzicadenti che danzava tra le labbra e lo sguardo ironico, era un galantuomo. A differenza di tanti colleghi ristoratori assumeva con regolare contratto e tanto di contributi. Il mio turno, quello serale, iniziava alle 18.30 preparando la sala e a mezzanotte e mezza/l’una la cucina chiudeva.
Rosa, la moglie, non dormiva mai. Dico davvero: non dormiva mai. Si ritirava nell’appartamento sopra il locale verso mezzanotte per comparire un’ora dopo, rinfrescata, e iniziare a rigovernare. Poi c’era Paolo, il figlio, che è venuto a mancare. Appassionato collezionista di arte contemporanea, per la quale era dotato di grande fiuto, nella trattoria è nato, vissuto e morto.
Vito era frequentato da un folto gruppo di artisti il cui capo indiscusso era Francesco Guccini, il Maestrone, che abitava a due passi, in via Paolo Fabbri 43. Una notte venne fatto spazio tra i tavoli e con Roberto Benigni si sfidarono a colpi di terzine. C’era la squadra di Lucio Dalla con Ron, Solieri, Tobia Righi, Moschetto, Roberto Serra e altri dei quali non ricordo il nome, musicisti, artisti un po’ stralunati e problematici. Uno di loro lo incontrai tanti anni dopo alle Cucine popolari, rovinato, ma con una bella criniera di capelli e ben vestito. E’ morto non tanto tempo fa, l’ho letto sul giornale.
Arrivavano ospiti estemporanei: Gregory Corso, al quale palpai il culo, tanto per dire che avevo toccato il sedere di uno dei padri della beat generation; Edoardo Bennato, che mangiava uova al tartufo (la cucina era popolare, il menù a buon mercato, il vino di due qualità e in tavola un solo bicchiere a testa, ma qualche piatto extra non mancava), Copi (che somigliava in maniera sbalorditiva alla donnina dei suoi fumetti) e tante e tanti altri: chi era in scena a Bologna finiva per andare a cena lì. O ci andava per giocare al Tarocchino Bolognese, di cui Vito era specialista.
Ci si mescolava, da Vito, tra famosi e infami, si tirava tardi. E quante chiacchiere. Come si dice: ce ne sarebbero da raccontare!
Dopo un anno mi licenziai. Da Vito tornavo e Paolo era lì, al tavolo all’ingresso che aveva occupato suo babbo prima di lui, il racconto dell’ultimo guaio di salute, di quella sacca che stava nascosta nei pantaloni, delle donne di cui si innamorava e che per un po’ lo amavano e poi, chissà come, sparivano. Si innamorava ancora anche se, diceva, sempre più cautamente.
Non so se la trattoria potrà sopravvivere. Per certo, quell’epoca se n’è andata da un pezzo e “tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia”. Ciao, Paolo. Quante cose si potrebbero raccontare!
Un saluto al caro Paolo
Caro Beppe, come sempre scrivi benissimo e riesci a dare le sensazioni più vere. Di Paolo mi rimangono impresse la cortesia e soprattutto l’ironia quando con una battuta dipingeva una situazione..
Grazie Beppe, il tuo scritto ci sollecita ricordi belli della nostra gioventù. Che è stata una bella età, vissuta in posti bellissimi come era da Vito, dove la mescolanza ha arricchito i nostri cuori e le nostre menti.