L’Umanità, lo sappiamo, è un teatro dell’assurdo. La guerra, purtroppo, il suo palcoscenico preferito. Eppure, dietro le quinte di questo orrendo spettacolo, c’è sempre una miriade di piccole storie che riescono con fatica a preservare un senso, anche dove un senso sembra proprio non esserci. Come quella di una testarda bracciante di Sala Bolognese, capace di lottare a mani nude contro miseria, fame, bombe e fascismo. Anche quella, a suo modo, fu una forma di Resistenza
di Pier Francesco Di Biase, caporedattore cB
Giuseppina “Peppina” Bernagozzi era nata a Sala Bolognese il 19 marzo del 1907. Bracciante “battitrice” di canapa come il marito analfabeta, crebbe sei figli sulle rive dei maceri, le mani e i piedi sempre in acqua e la schiena curva sulle fascine in ammollo.
Non era certo considerata una santa, Giuseppina: testarda come un mulo, a tratti dispotica, indipendente al punto tale da tagliare i rapporti con la sua famiglia già a diciassette anni, dopo aver dato alla luce la primogenita pochi mesi dopo il matrimonio… Vista con gli occhi di oggi, viene da chiedersi se per caso avesse anche dei difetti.
Un difetto grave di certo l’aveva, almeno secondo i canoni dell’Italietta di allora: era comunista fino al midollo. Per tale motivo, nelle sue tasche, non entrò mai una tessera fascista, nonostante tutte le privazioni che questa scelta comportava.
Fu così che i suoi figli conobbero, ben prima di tanti altri, la vergogna di rubare l’uva nei campi avvolti dalla notte, la fame che dà a un bambino la forza di scardinare la porta a protezione della dispensa, la paura di essere scoperti che fa tagliare un salame nel mezzo a fette sottili, infilandoci uno stecco perché possa sembrare ancora integro a uno sguardo distratto.
Conobbero anche il gusto acido del diniego, la banalità del male che induce il vicino di sempre a rifiutarti un pugno di farina perché “deve dar da mangiare ai maiali”. Conobbero, soprattutto, il prezzo crudele della coerenza, alla quale si deve sacrificare anche l’unico paiolo della casa, facendolo a pezzi e sotterrandolo nell’orto pur di non lasciarlo “alla Patria” infame. Da ultime arrivarono le bombe, e un distaccamento della Wehrmacht a occupare quel che restava del casolare.
La miseria e la guerra son come la vita dei campi, ti incrostano anima e corpo di una durezza che non ti abbandona più. Fu così che, fino all’ultimo, Giuseppina continuò a sfregarsi le mani tormentate dall’artrite e a ricordare chi allora le aveva fatto del male, “benedicendone” la memoria con una sentenza impastata di insanabile risentimento: «Però ló lé l’è bèla mort, mé invezi a son ancora qué».
Nei giorni in cui un nuovo conflitto suggerisce parallelismi e induce a dividersi in fazioni opposte nel metodo quanto concordi nel merito, a me la vicenda di Giuseppina, nella sua semplicissima linearità, è tornata subito in mente. Perché certo lei non salì sui monti e non imbracciò il fucile, ma lottò a mani nude contro la miseria, la fame, la guerra e il fascismo. E non penso di fare torto ad alcuno se definisco anche la sua, senza remore, una storia di Resistenza.
L’Umanità, lo sappiamo, è un teatro dell’assurdo. La guerra, purtroppo, il suo palcoscenico preferito. Eppure, a ben guardare, dietro le quinte di questo orrendo spettacolo c’è sempre una miriade di piccole storie che riescono con fatica a preservare un senso, anche dove un senso sembra proprio non esserci. Per scorgerle e apprezzarle, forse, basterebbe non farsi prendere troppo dalla trama principale.
In copertina: macerazione per affondamento di una zattera di fasci di canapa per mezzo di sassi a Castagnolino, frazione di Bentivoglio (BO), 1928. (Photo credits: Archivio Museo della Civiltà Contadina di San Marino di Bentivoglio)
Splendido ricordo- racconto;l’Italia e’ anche questa.Vivi complimenti
Bravo!