Un appuntamento tra ricchi bolognesi in un ristorante con molte pretese, un menù luculliano, personaggi sgraziati nella loro ostentata lussuria. Un incubo, un’allucinazione, un frutto avvelenato della fantasia. Ma talmente vivido nella sua bruttezza da far sembrare reale anche ciò che reale, per fortuna, non è. Non importa chi sei e cosa fai. Non importa la beneficenza. Importa solo il numero dei dessert che ti viene promesso a inizio pasto. Se inferiore alle attese, si fottano tutti
di Andrea Garreffa, co-fondatore di 6000 sardine
Si entrò in una sala dai soffitti alti, i lampadari in cristallo, quadri scuri alle pareti. Mancava luce, mancavano le finestre. In un ambiente siffatto si erano dati appuntamento ricchi bolognesi, proprietari di botteghe, politici che avevano fatto carriera cavalcando i bassi istinti della gente. Tutti si sedettero a tavola per godere di un buon pasto, ma l’ignoranza era un ingrediente presente in eccesso nel menù della serata e nessuno sembrava aver considerato che per mangiare bene la buona compagnia conta più del buon cibo.
Sguardi viscidi si incrociavano a ogni tavolata, interessi inconfessabili, pulsioni sessuali, brama di denaro o di potere. Tutto questo era nascosto dal manto buonista della “cena di beneficenza” per cui i presenti si erano dati appuntamento. Se possibile, questo fatto aggiungeva una punta di amaro a ogni piatto, ancor prima che venisse servito.
Il servizio fu lento, lentissimo. Mousse di mortadella, tortellini, tagliatelle al ragù, faraona e la promessa di un tris di dolci. Un menù bolognese servito in mini porzioni da bistrot parigino. Un continuo muoversi di camerieri vestiti in modo nettamente più elegante di molti degli invitati, avvolti in giacche troppo strette o in abiti ricoperti di improbabili paillettes.
C’era Franco Porcello con la pancia sciabordante di vino, un sorriso ebete e una voglia malsana di apparire in ogni foto. Ogni volta che alzava il calice per avvicinarlo alla bocca si metteva in posa come un fauno, sperando che qualcuno lo guardasse e apprezzasse la sua eleganza e il suo portamento. Alcuni suoi simili gli davano soddisfazione e Franco, dalla gioia, emanava fragorosi rutti.
C’era Giovanna Cotenna, nobildonna proprietaria dei negozi più esclusivi del centro storico. Portava un rossetto tutto sbavato, capelli biondi cotonati e parecchi ori al collo e ai polsi. Cotenna si fece notare per i suoi ripetuti complimenti pubblici allo chef conditi di allusioni sessuali, che non mancarono di produrre anche un certo imbarazzo. Esponeva il suo anziano seno come mercanzia sui banchi di uno dei suoi negozi, sperando che ai suoi complimenti culinari seguissero apprezzamenti sul suo corpo d’epoca. Questi non arrivavano e la tristezza si dipingeva sempre più profonda sul suo viso. Una scena molto avvilente, quadro di un’esistenza che non aveva saputo scendere a patti con lo scorrere del tempo e le stagioni della vita.
C’era infine Pietro Templare, uno strano figuro che non si sedeva mai ma percorreva la sala come un maratoneta, impegnato in una staffetta tra i tavoli per mostrare a tutti la medaglia che portava al collo. Si trattava di una croce di colore rosso che Pietro sventolava come a voler rendere nota la sua appartenenza a un circolo esclusivo di persone: il circolo dei vincitori, dei truffatori, dei torbidi, degli affaristi che fanno della corruzione e dell’omertà il proprio codice d’onore. Tutti volevano scambiare qualche parola con Pietro e carpire il segreto per entrare con slancio nel “Circolo della Gran Croce”.
All’ultimo cucchiaino di zuppa inglese tutti i presenti fuggirono di corsa creando un vuoto d’aria in sala tale da produrre un’eco che risuona ancora a distanza di giorni: «Non importa chi sei e cosa fai. Non importa la beneficenza. Importa solo il numero dei dessert che ti viene promesso a inizio pasto. Se inferiore alle attese, si fottano tutti».