Ex operaio della Minganti, a cavallo tra gli anni ’60 e’70 aveva contribuito alla nascita dei primi collettivi operai-studenti. Un periodo di grandi battaglie e di grandi vittorie, culturali, ideali e materiali al tempo stesso, che videro il loro culmine con l’approvazione dello “Statuto dei lavoratori”
di Otello Ciavatti, cofondatore del Manifesto a Bologna
La morte di un ex operaio della Minganti, Valerio Rambaldi, mi ha riportato a un periodo denso di innovazioni politiche e sindacali. A salutare Valerio ho incontrato frammenti degli antichi collettivi operai-studenti, i volti segnati da un tempo che pur incidendo sulle forme non è riuscito a cancellare l’esperienza di una stagione straordinaria.
Il confronto con l’oggi riporta in primo piano le Idee sulla politica, sui rapporti interpersonali, sul lavoro, sulla scuola, sul sindacato, sulla cultura di una generazione ancora oggi attiva. Eccoli gli ex operai e impiegati, gli ex studenti, tutti coloro che, spesso, si conobbero per la prima volta all’alba davanti alle grandi fabbriche bolognesi o partecipando ad affollatissime assemblee nelle facoltà occupate.
Ai tempi andare in fabbrica a volantinare e invitare la Fiom in facoltà sembrava assolutamente naturale e forse in questo scambio, più che in ogni altro momento, si realizzava un’idea alta di politica, di organizzazione sociale fondata sull’ eguaglianza delle opportunità ,e sul ruolo centrale assegnato al lavoro.
A Bologna c’era una struttura industriale fortissima non solo nelle periferie della Bolognina, Borgo Panigale, Santa Viola, San Donato, ma anche in centro città. La Minganti, con i suoi 600 operai, era tra le fabbriche più importanti. All’Esposizione di Parigi del 1928 Minganti aveva presentato il primo tornio a comando idraulico e a variazione continua di velocità, il cui brevetto gli diede notorietà a livello internazionale.
In fabbrica si stava passando dalle commissioni interne ai consigli di fabbrica, cambiavano i contenuti e le forme di lotta: quaranta ore, democrazia interna, sciopero generale, sciopero a scacchiera, senza preavviso, reparto per reparto. Gli accordi sottoscritti il 7 agosto 1947, l’8 maggio 1953 e il 18 aprile 1966 – formalmente riducevano sempre più i compiti e i poteri delle commissioni interne, soprattutto in materia contrattuale, anche se nella realtà essi rimanevano consistenti. Ai membri delle commissioni interne era proibito spostarsi per la fabbrica durante le ore di lavoro,non ricevevano più permessi retribuiti per compiti sindacali,né era permesso di affiggere avvisi o di avere una stanza in cui riunirsi.
Gli operai più giovani, spesso provenienti da forti ondate migratorie, entravano in una fabbrica priva di forme di democrazia, dove il sindacato era appena tollerato, si licenziava con facilità, le donne avevano salari inferiori agli uomini, esistevano le gabbie salariali, non c’era contratto integrativo e si lavorava più di 40 ore, con sistemi incentivanti come il cottimo che dividevano i lavoratori e spremevano la loro materialità, senza affidargli nulla di creativo. Dal 1953 al 1960 la produzione industriale era cresciuta del 89%, la produttività del 62%, ma i salari erano calati mediamente dell’1%. Inoltre era aumentato il divario tra Nord e Sud, c’era stata una fortissima migrazione interna che, dal 1955 al 1970, aveva visto oltre 9 milioni di persone lasciare Sicilia, Puglia, Campania diretti al Nord con il treno del sole, per lavorare nell’edilizia, nella meccanica, in fabbriche che li accoglievano male, in città dove le abitazioni costavano molto e quelle che si costruivano per i nuovi lavoratori erano spesso confinate in periferie prive di servizi.
La svolta dei consigli di fabbrica
La svolta nel senso di una maggiore autonomia si ebbe nel congresso della Fiom del 1970, quando furono riconosciuti i consigli di fabbrica, già operanti di fatto come istanza di base del sindacato. L’assemblea dei lavoratori conquistata dai metalmeccanici con il contratto del ’69-70 diventerà il momento democratico più alto nell’attività sindacale in fabbrica.
Il 1970 rappresenta un momento fondamentale anche perché il 20 maggio venne ratificata la Legge 300, lo «Statuto dei lavoratori» (richiesto da Di Vittorio già al Congresso della Cgil del 1952). Con esso, tra le altre cose, vengono introdotte per legge le rappresentanze sindacali aziendali e l’Assemblea dei lavoratori. Lo Statuto sancisce un insieme dei diritti dei lavoratori dipendenti (libertà sindacali), afferma in termini di diritto la presenza del sindacato in fabbrica e vieta l’attività antisindacale.
Ebbene tra il 1968 e il 1970 si ottiene una modifica rilevante del modo di lavorare, delle condizioni di democrazia, si aboliscono le gabbie salariali, si ottengono progressi nei diritti delle donne (maternità, salari), si può fare contrattazione integrativa, assemblea, consiglio di fabbrica, si riduce l’orario a 40 ore, si interviene sulle scelte produttive, si avvia il processo di superamento del principio catena di montaggio-cottimo a favore di un maggior coinvolgimento dei lavoratori e della loro capacità innovativa. Lo Statuto dei lavoratori arriva come forma costituzionale che rispetta il lavoro e introduce i diritti democratici in fabbrica,in primo luogo quello di non essere licenziato per motivi diversi dalla giusta causa.
Nascono in quel periodo anche molti periodici, riviste in cui si intrecciano filosofia, sociologia, letteratura, sindacato, scuola, teoria politica, psicologia, analisi internazionale. Rassegna sindacale, Quaderni Piacentini, Che fare, Quaderni Rossi, Contropiano, Quindici, Il Verri, Lavoro Politico, Classe, Il Manifesto rivista e poi quotidiano, Potere Operaio, Lotta Continua, Mondo operaio, Impegno Unitario, Sindacato e Società, Utopia, Nuova Sinistra , Fabbrica e Stato, Sindacato Moderno.
Vi scrivono Foa, Cacciari, Bologna, Trentin, Roversi, Scalia e Bellocchio, ma anche Stame e Boarini. Nasce una generazione di giornalisti che faranno del Manifesto un organo importante dell’informazione politica e culturale. Attorno al Manifesto si organizzavano i collettivi operai-studenti e Rambaldi ne fu attivista convinto e intelligente. Una generazione di nuovi politici si forma attraverso la lotta e la cultura. L’autorità del dirigente derivava dall’esperienza di movimento e dall’intelligenza teorica.
Di quel periodo è rimasta un’idea nobile di politica, la metodologia di formazione dei gruppi dirigenti, la centralità del sapere e del rapporto tra lavoro manuale e intellettuale, l’importanza della formazione culturale per l’attività politica e del lavoro per definire il profilo di una società, la solidarietà e il carattere volontario del fare politica.
Cose che oggi sarebbero di nuovo preziosissime e che in parte se ne vanno con i compagni come Valerio Rambaldi.
