Il dialogo a distanza tra Stefano Bonaccini e Matteo Lepore riporta in auge la vecchia contesa sulla ragione politica del Pd. Un dibattito che si trascina dalla nascita del partito, ma che la composizione delle liste e il programma per le prossime elezioni sembrano in grado di superare
di Pier Francesco Di Biase, caporedattore cB
In principio fu Bonaccini, che commentando l’addio di Calenda alla coalizione di centrosinistra invitò il suo partito «a non rinchiudersi in una ridotta a sinistra». Il secondo giorno fu il turno di Lepore, che intervistato da Repubblica indicava queste preoccupazioni come «argomenti precongressuali» e rilanciava la sua idea di un Pd laburista, più attento ai bisogni dei ceti popolari: «Più che rischiare di essere sbilanciati a sinistra, bisogna evitare di essere sbilanciati sulle élite».
Il terzo giorno fu poi la volta del politologo Carlo Galli. Il quale, sempre intervistato da Repubblica, si dichiarava favorevole alla linea del sindaco e rispetto ai timori di Bonaccini sosteneva: «Quello che vuole il presidente, governare tutti insieme da Azione alla sinistra, si può fare solo in Emilia-Romagna». Evocando Togliatti, poi, lo invitava a «non pensare che tutta l’Italia sia come l’Emilia». A stretto giro replicò infine Bonaccini, pur senza riferimenti espliciti.
Il presidente della Regione ricorda le vittorie in serie che, nell’ultimo biennio, «un centrosinistra rinnovato, plurale e civico» è riuscito a ottenere in Emilia-Romagna. Un obiettivo raggiunto – aggiunge – «sapendo parlare largo, conquistando voti anche da elettori di altri schieramenti», frutto di un confronto pragmatico con il «mondo reale, da conoscere e affrontare» e lasciando perdere il «mondo virtuale da commentare, magari seduti in salotto».
Con una battuta, questo dialogo a distanza tra sindaco e presidente si potrebbe riassumere con le parole del Dio gucciniano, che nella Genesi si inalberava: «Ma cosa vuol dire di sinistra, di sinistra… non sono un socialdemocratico anch’io? Avanti al centro contro gli opposti estremismi!». Oltretutto, il tema non è certamente fresco: tanto si è scritto e tanto si è detto, dal 2007 a oggi, di questo partito “ornitorinco” che sommava identità vecchie per crearne una nuova, più adatta ai tempi. Un tentativo che fin qui ha retto, almeno in quella parte di mondo progressista che la globalizzazione ha premiato. Ora la sfida – se non si vuole lasciar campo libero ai populismi – è guardare anche alla parte che ne è rimasta scottata e navigare in mare aperto, lì dove osarono, per prime, le Sardine.
Come sempre, anche in divisa da pompiere, resto convinto che la ragione stia nel mezzo. E che tanto Bonaccini quanto Lepore parlino in sostanza la stessa lingua, pur con approcci evidentemente diversi. Perché il lavoro come l’ambiente sono sfide che pongono tanti problemi e in tante forme, e non da oggi: come dimenticare infatti il “Congresso dell’Amazzonia” del Pci nell’ ‘89 o l’ormai quarantennale svolta berlingueriana che impose alla sinistra, per essere finalmente maggioritaria, il dialogo anche con il ceto medio dei piccoli imprenditori, dei commercianti, dei liberi professionisti. Il problema, semmai, è che spesso in tempi recenti non si è parlato né con loro né con i lavoratori dipendenti. E questo, forse, è il vero strappo da ricucire.
E dunque un partito (e una coalizione) del Lavoro, certo: ma di tutto il Lavoro. Un’alleanza progressista che abbia l’orgoglio e non il timore di candidare personalità sindacali come Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Aboubakar Soumahoro, insieme a economisti di fama internazionale come Carlo Cottarelli e, mi auguro, Fabrizio Barca. Difendere chi il lavoro lo fa, senza per questo rinunciare al dialogo con quella parte di Paese che il lavoro lo crea, che sia il mondo dell’impresa o quello cooperativo.
Se questo schema di gioco sarà vincente, come è ovvio in democrazia, lo sanciranno le urne. Perché come ha ricordato recentemente Virginio Merola, «se ancora c’è chi pensa che la sinistra di oggi e del futuro non possano convivere in uno stesso partito, che era l’idea costitutiva del Pd, costui va sconfitto con i fatti, con il consenso popolare». E chi – come chi scrive – è nato fortunatamente troppo tardi per crescere Ds o Margherita, non può che condividere le parole del presidente dell’Istituto Parri.