L’emergenza democratica non sono i “rave” ma il Ministero dell’ Interno

L’ex Commissario Prefettizio di Bologna Annamaria Cancellieri, titolare del Viminale all’epoca del Governo Monti, solleva la questione intervenendo a proposito del contestato decreto legge del neoministro Piantedosi, additato da tutti gli osservatori come un pessimo esempio di tecnica legislativa

di Roberto Bin, costituzionalista


Lo ha detto anche l’ex Commissario Prefettizio di Bologna Annamaria Cancellieri (in un’intervista a La Stampa): «Basta tecnici al Viminale… non posso che auspicare il ritorno di ministri pienamente politici», che si ritorni cioè “alla normalità”. La stessa Cancellieri era un prefetto divenuta ministro (del Governo Monti), così come dopo di lei Luciana Lamorgese (Governi Conte II e Draghi). In precedenza era capitato al prefetto Giovanni Rinaldo Coronas (Governo Berlusconi I) e ancora prima a nessun altro nella storia della Repubblica.

Qualche ministro “tecnico” era capitato alla Difesa (il gen. Domenico Corcione nel Governo Dini, e l’amm. Giampaolo Di Paola nel Governo Monti) e più spesso vi sono stati ministri degli Esteri provenienti dal corpo diplomatico. Ma una domanda si è sempre riproposta: che ci fa un “tecnico” di ruolo a capo di un ministero, responsabilità sommamente politica? È quello che probabilmente si chiese l’amb. Renato Ruggero quando Berlusconi spiegò che «Ruggero è un ministro tecnico, il responsabile della politica estera sono io». E infatti non ci mise molto a dimettersi (2002).

Ma la vera domanda è: di che cosa è un “tecnico” un prefetto? I prefetti sono un corpo di dirigenti dello Stato che hanno una carriera separata d’élite: essi popolano il Ministero degli Interni in tutti i ruoli direttivi di quattro dei cinque dipartimenti e delle relative direzioni. Salvo però il Dipartimento  della pubblica sicurezza (e le relative sottostrutture), in genere affidati a personale proveniente dalla polizia di Stato, spesso destinato a transitare nella carriera prefettizia. Le competenze dei prefetti sono perciò tutte orientate al mantenimento dell’ordine pubblico: se è bravo – e a detta di tutti Piantedosi lo è – è del buon funzionamento della macchina di repressione delle attività che turbano l’ordine pubblico che il prefetto è uno specialista. Ma la guida politica della macchina è compito del “tecnico”? Per parafrasare la sentenza di Berlusconi, la presidente Meloni dovrebbe dire «Piantedosi è un ministro tecnico, il responsabile della politica interna sono io».

Ora capita che il ministro “tecnico” abbia predisposto un testo di decreto-legge che, oltre a essere chiaramente privo dei requisiti di “straordinarietà, necessità ed urgenza”, tassativamente prescritti dalla Costituzione (c’è davvero un pericolo così imminente e pressante di nuovi rave party da non poter aspettare una legge ordinaria? E non ci sono altre norme che eventualmente possano impedirli? E se non ci sono, perché definirli “illegali”?), è additato da tutti come un pessimo esempio di tecnica legislativa: anzitutto perché ignora quello che l’art. 17 della Costituzione prescrive a tutela della libertà di riunione. Tra i limiti invocabili per vietare una riunione “in luogo pubblico” vi sono i “comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”, non il generico riferimento all’ordine pubblico, termine che accuratamente la nostra Costituzione (almeno prima dell’accenno nella riforma del Titolo V) non impiega mai e che invece viene surrettiziamente introdotto dal decreto-legge.

Invece, la legge potrebbe specificare in quali particolari casi questi “motivi” possono ricorrere. Potrebbe anche chiarire il regime dei “luoghi” privati invasi dai partecipanti (anche se c’è già l’art. 633 del Codice Penale, con cui si dovrebbe avere la pazienza di coordinarsi). Poi la Costituzione obbliga i promotori a dare preavviso al questore almeno 3 giorni prima. Bene, la legge potrebbe aggravare, e di molto, le conseguenze penali del mancato preavviso per rave che minacciano seriamente l’incolumità pubblica. Insomma, volendo inasprire la disciplina dei rave il legislatore potrebbe e avrebbe molto da fare. Ma non ne ha la pazienza politica o gli manca la capacità tecnica.

Quello che però stupisce – e un po’ indigna – è che il tecnico/politico pensi di cavarsela candidamente dichiarandosi «offeso» da chi attribuisce al governo «la volontà di intervenire in altri contesti, in cui si esercitano diritti costituzionalmente garantiti a cui la norma chiaramente non fa alcun riferimento» (Piantedosi); e aggiunga (Meloni): «state tranquilli, nessuna libertà costituzionale e nessun diritto saranno violati! Finalmente la legge sarà rispettata». Questo è il punto: in uno Stato costituzionale è la legge la garanzia delle libertà dei cittadini, non il buon cuore, le care intenzioni e le promesse del potere politico (e dei suoi tecnici): per cui una legge pasticciata (a voler essere benevoli) pasticcia le garanzie dei nostri diritti!

E non minore indignazione suscita la generale affermazione da parte dei ministri che comunque il parlamento può intervenire per modificare il decreto-legge in fase di conversione. Non si rendono conto questi tecnici/politici delle conseguenze che provocano gli eventuali emendamenti a un decreto legge in campo penale? Delle due l’una: o pensano che nulla avrà modo di essere applicato in concreto nei prossimi mesi (ma allora dove sta il requisito della “necessità ed urgenza”?) oppure la pensano come il ministro dell’Università, la bolognese Anna Maria Bernini, che ai giornalisti ha candidamente dichiarato che il decreto-legge è «solo una proposta al Parlamento»!

Ma non è laureata in Giurisprudenza? Già, ma è un politico, non un tecnico. È un politico a cui forse piacciono le facezie: «Io da Ministro dell’Università ribadisco che la norma non si applicherà a manifestazioni di dissenso nelle università o nelle scuole»; e per ulteriormente assicurarci aggiunge: «E’ una proposta che considero largamente condivisibile, in quanto l’ho votata». Lapalisse!

Photo credits: Imagoeconomica/Ministero dell’Interno


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