2 agosto 1980, il dovere di mettersi nei panni delle vittime

Lunedì 13 marzo a Bologna si è svolta un’udienza particolarmente significativa del processo per falsa testimonianza che vede imputati Luigi Ciavardini, uno dei tre neofascisti condannati in via definitiva per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, e Vincenzo Vinciguerra, il terrorista di Ordine Nuovo autore (reo confesso) della strage di Peteano. Ascoltare con le proprie orecchie la voce di feriti e parenti delle vittime intervenuti credo non sia solo commovente, ma doveroso

di Riccardo Lenzi, giardiniere, presidente Piantiamolamemoria Aps


«Quando ti annunciano delle sfighe va a finire che ci prendono». Così Paolo Bolognesi ricorda alla Presidente della Corte, Gilda Del Borrello, la tensione vissuta nei giorni in cui i medici avevano comunicato a lui e alla moglie che la vita di loro figlio – aveva 6 anni – era appesa a un filo. Alla fine Marco Bolognesi fortunatamente si salvò. Destino diverso da quello del brillante studente universitario Sergio Secci, figlio di Torquato, primo presidente dell’Associazione familiari vittime, il cui corpo ridotto a un “rudere” non farà più ritorno a casa: morì in ospedale cinque giorni dopo il ricovero.

Lunedì 13 marzo a Bologna si è svolta un’udienza particolarmente significativa del processo per falsa testimonianza che vede imputati Luigi Ciavardini, uno dei tre neofascisti condannati in via definitiva per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, e Vincenzo Vinciguerra, il terrorista di Ordine Nuovo autore (reo confesso) della strage di Peteano. Sono accusati di essere stati reticenti durante le loro testimonianze rese nel recente processo a Gilberto Cavallini, il membro dei Nar condannato in primo grado all’ergastolo per concorso in strage. Tra gli imputati di questo processo doveva esserci anche Stefano Sparti, figlio di Massimo, il principale accusatore di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Non ci sarà: è morto a Roma lo scorso gennaio, precipitando dalla finestra di casa sua a Tor Bella Monaca. Nel marzo 2018 la terrorista rossa Barbara Balzerani, ex dirigente della colonna romana delle Brigate Rosse, ebbe l’impudicizia di esprimere pubblicamente una opinione (qui) tanto legittima quanto, a mio parere, vergognosa: «fare la vittima è diventato un mestiere».

Non è solo commovente. Credo sia doveroso ascoltare con le proprie orecchie la voce di feriti e parenti delle vittime intervenuti nell’udienza di lunedì scorso. Ne riporto qui alcuni frammenti, consigliando a chi sta leggendo queste poche righe di fare lo sforzo di ascoltare, su Radio Radicale, l’audio originale (qui) dei loro emozionanti – e processualmente significativi – interventi in aula. Più d’uno ha dichiarato di sentirsi a disagio nel trovarsi seduti sulla stessa sedia in cui si sono alternati, negli ultimi tre anni, imputati e testimoni dei processi Cavallini e Bellini.

Ivan Bonora: «Io di mio padre ricordo poche cose; sento più l’assenza e il fatto di ricordarlo come vittima. Il ricordo di lui ce l’ho puramente dalle foto. Non mi ha mai accompagnato nel corso della mia crescita.»

Paolo Lambertini: «Il sabato era un giorno in cui mio papà mi accompagnava, io andavo a prendere la mamma in stazione. (…) La reazione di quel ragazzino di 14 anni, che ero io, è stata quella di correre al telefono e telefonare alla mamma: 37 22 21 è un numero che non mi dimentico.»

Marina Gamberini: «Sono rimasta completamente sepolta e al buio. (…) Avevo la consapevolezza che se non arrivava nessuno, lì doveva finire. Quella fase è stata veramente impegnativa perché è quella di cui non ti liberi più. È la paura, la disperazione perché non vedrai più i tuoi cari e che non potrai più fare quello che avevi in mente di fare; a 20 anni io volevo vivere, ero in un momento veramente meraviglioso, lavoravo da qualche tempo quindi avevo un’indipendenza economica. Pensavo proprio di avere il mondo in mano, cioè da lì in poi avrei deciso cosa fare della mia vita».

Anna Pizzirani: «Perché ho seguito tutti i processi? La sera del 2 agosto all’ospedale Rizzoli mia figlia, 11 anni, che fortunatamente ebbe solo delle ferite, però ferite in tutto il corpo, dalla testa ai piedi… sentire una bambina di 11 anni che, visto che non c’era più nessuno (erano andati via tutti, suo padre compreso) mi disse testualmente, e questo non me lo posso dimenticare anche se son passati quasi 43 anni: «Mamma, cosa ho fatto di male che mi volevano uccidere?»

Patrizia Poli: «Io avevo già una figlia nata nel ’79, quindi l’ho cresciuta con un’ansia incredibile, io che sono sempre stata una persona che non aveva paura di nulla. Da allora ho paura di tutto, viaggio con il tranquillante nella borsa da 43 anni (meglio due bottigliette, perché se una finisce non si sa mai) e sono diventata dipendente da tutte queste robe.»

Giovanni Zini: «Io ero un ferroviere, per cui la stazione è stata la mia seconda casa. (…) Yuri era davanti a me, con lo spostamento d’aria fa un volo di circa 3 metri e va a cadere sul marciapiede del primo binario. L’istinto di un padre è subito quello di soccorrere il figliolo, per cui mi sono precipitato su di lui, l’ho chiamato, mi ha risposto quindi era cosciente. Come lo prendo in braccio comincia a sanguinare. Con la coda dell’occhio vedo la pensilina tutta crollata, polvere… L’ho preso, sono uscito dalla stazione, l’atrio era pieno di vetri, ho camminato sui vetri, persone a terra, poi sono andato in questo ambulatorio e ho fatto prestare le prime cure.»

Rita Vaccaro: «Nella strage ho perso mia mamma e mio fratello. Mia mamma aveva 46 anni, mio fratello 23 e oltretutto era sposato, con una bambina di 4 anni. (…) È una sofferenza continua. E poi sentire che nessuno dice la verità, raccontano bugie, ti fa stare ancora peggio.»

Maria Vaccaro: «Ogni volta io reagisco con rabbia, perché per depistaggi, per cose varie, non si riesce ad arrivare ad avere giustizia; quello che noi dobbiamo ai nostri morti e a tutte le persone coinvolte. (…) Come mi ha detto la mia psicologa, io non voglio essere felice, non posso essere felice, perché collego la cosa: nel momento in cui ho un po’ di felicità, mi deve succedere qualcosa.»

Roberta Garuti: «Io non ho parlato di che cosa mi era successo per 25 anni. Nel frattempo mi sono sposata, ho avuto una bambina. (…) Come dico sempre ai ragazzi delle scuole dove andiamo a fare testimonianza, l’unica pena certa è la nostra.»

Morena Verde: «Si chiamava Rita, aveva 23 anni. Con mia sorella avevo quasi una simbiosi, io ero più giovane di lei di 16 mesi, quindi tutta la nostra breve esistenza l’abbiamo passata insieme. (…) Massimo, il suo fidanzato, l’ha accompaganta la mattina al lavoro, l’avrebbe dovuta andare a riprendere, noi l’aspettavamo al mare. (…) Mia mamma era la tipica mamma chioccia, che guai se ti spezzi un’unghia, perché è mio figlio, è mia figlia. Quindi ho preso da parte mio padre, che era la parte più forte e gliel’ho comunicato. (…) Quando sono venuti a darci la notizia la scena che ricordo sono mio padre e mia madre che rotolavano nel letto abbracciandosi e piangendo in maniera disperata. E qui inizia tutta una storia nuova.»

Sonia Zanotti: «Il 2 agosto 1980 alle 10.25 ero in sala d’attesa. Avevo 11 anni e non dovevo essere lì. Tutta una serie di circostanze ha fatto sì che io fossi lì a quell’ora. In quel momento stavo mangiando un panino con la frittata, stavo bevendo una bibita, e soprattutto stavo aspettando un treno che avevo perso alle 8 del mattino. Ero insieme a mia cugina, di undici anni più grande di me. Stavo aspettando il treno per tornare a casa in Val Gardena, mi stava aspettando un’estate intensa di allenamenti, perché sciavo a livello agonistico e proprio quell’anno ero passata di categoria. Era la mia passione. (…) Ho rischiato l’amputazione di una gamba.»

Paolo Sacrati: «Avevo 13 anni. (…) Mia mamma si chiamava Loredana Molina, avrebbe compiuto a novembre i 44 anni, e mia nonna Tarsi Angelica che aveva 72 anni, mia nonna paterna. (…) Stamattina sono andato a parlare con 50 studenti di un liceo di Cento, perché la memoria è importantissima. (…) Spero che prima o poi qualcuno si decida a dire la verità.»


Un pensiero riguardo “2 agosto 1980, il dovere di mettersi nei panni delle vittime

  1. Il doveroso risalto ad una sofferenza incancellabile, ad una ingiustizia che chiede verità ed impegno da parte di Istituzioni che non sempre sono state dalla parte giusta.

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