È nel cda dell’Istituto Superiore di Sanità e consigliera della Fondazione per la Sanità Cattolica. In un’intervista personale e professionale rivela il sacrificio da donna nella sua carriera da dirigente, ma anche l’orgoglio nel poter guidare una struttura che, passando dalle malattie rare all’Intelligenza artificiale, resta un’eccellenza
di Alessandra Arini e Redazione InCronaca
È un impero il Sant’Orsola, ma anche un “parco giochi” per studenti, come lo definisce lei. Da quando tre anni fa è stata nominata alla direzione del Policlinico universitario Sant’Orsola ha affrontato grandi sfide, come lo «shock» della pandemia e i tagli costanti alla sanità pubblica dei Governi che si sono succeduti.
In un’intervista personale e professionale rivela il sacrificio da donna nella sua carriera da dirigente, ma anche l’orgoglio nel poter guidare una struttura che, passando dalle malattie rare all’Intelligenza artificiale, resta un’eccellenza. Guardando al futuro, prova a dare una risposta alle questioni come la mancanza di personale sanitario, la gestazione per altri e il diritto all’aborto. È nel cda dell’Istituto Superiore di Sanità e consigliera della Fondazione per la Sanità Cattolica. Ha parole di chiarezza sui vaccini e considera i giornalisti «alleati» nel comunicare il suo mondo complesso.
“Da donna” come è e come è stato ricoprire un incarico da direttore generale, prima all’Ausl e ora al Policlinico, in un mondo tradizionalmente “governato” dagli uomini?
«Per dare l’idea di quanto questo sia un mondo maschile, dico che mi è capitato di essere scambiata per la segretaria del direttore generale. Questo ruolo ha cambiato l’assetto della mia vita e l’ho scelto in un momento in cui i miei tre figli erano già grandi. Però ritengo che uno sforzo di questo tipo si debba fare solo per un sistema universalistico pubblico. Non avrei impiegato tanta fatica e tante ore della mia vita per un sistema che abbia leve di profitto che quando parliamo di salute, non ci devono essere».
Nelle settimane scorse è circolata l’ipotesi di accorpamento dell’Ausl con il Policlinico. Qual è la sua opinione?
«Oggi c’è un muro amministrativo e istituzionale che separa questi due mondi. Il fatto che queste realtà abbiano un bilancio separato ha creato distanza. Da questo accorpamento deriverebbe un beneficio per il percorso di continuità della cura del paziente e anche per questo è una riflessione necessaria. L’ipotesi ideale sarebbe quella dell’azienda unica, pur riconoscendo il limite dispersivo delle grandi dimensioni».
Quando nel marzo 2020 è scoppiata la pandemia, da poco era stata nominata direttrice del Sant’Orsola. Come ha vissuto quel momento?
«Come uno shock inaspettato. I primi elementi li abbiamo avuti a gennaio 2020, con un quadro poco chiaro dell’informazione. Il messaggio era “di prepararsi perché sarebbero arrivati molti pazienti con insufficienza respiratoria”. Abbiamo chiamato un esperto da Wuhan per un corso di formazione ed è stata una doccia fredda. La cosa più drammatica è stata vedere letteralmente “cadere le persone”, pazienti che nel giro di due ore passavano dalla semplice tosse alla semplice tosse alla sensazione di morire».
Che ruolo hanno avuto i giornali nella gestione della pandemia?
«La mia è stata un’esperienza estremamente positiva, eravamo più carenti noi come sistema sanitario. I giornalisti sono stati alleati straordinari, perché hanno “tradotto” quello che stava accadendo, aiutando a farci capire come andava di pari passo comunicato. Spero che la comunicazione fruttuosa, sperimentata durante la stagione Covid, possa continuare».
Secondo il Nursing Up (Sindacato degli infermieri) sono almeno 20mila gli operatori sanitari affetti da long Covid nel nostro sistema nazionale. Quali sono i motivi per cui in Italia non è ancora considerata malattia professionale?
«Perché spesso la malattia è legata a fragilità personali o pregresse del soggetto e perché deve essere dimostrato il contagio avvenuto sul luogo di lavoro. Abbiamo creato insieme alla medicina preventiva un sistema di monitoraggio e trattamento di questi casi che si sono presentati nella nostra comunità».
Il personale ha vissuto in “prima linea” la lotta al virus: come sono intervenute le strutture ospedaliere a sostegno da un punto di vista psicologico?
«È stato un momento drammatico, a cui per loro si è aggiunto l’elemento della solitudine: hanno visto, da soli, morire tante persone. Abbiamo da subito attivato lo sportello psicologico. Adesso stiamo cercando di agire anche sui gruppi: perché se il Covid nella maggior parte dei casi ha prodotto coesione, in altri gruppi di operatori è stata causa di disgregazione».
Cosa possiamo rispondere ai no vax sulla sicurezza dei vaccini?
«Che non abbiamo avuto un solo ricovero per gli effetti collaterali dei vaccini. E possiamo ricordare loro il quadro drammatico della pandemia, con persone che nel giro di poco tempo non riuscivano più a respirare per una polmonite. Dopo il vaccino non abbiamo più
visto situazioni così».
Dopo tre anni, si può parlare ancora di pandemia?
«No, come da letteratura ci si sta spostando verso una fase endemica. Vuol dire che è un’infezione presente all’interno della popolazione, ma non genera più un incremento di ricoveri. Convivremo con questo virus, come con tanti altri».
A maggio al Sant’Orsola verrà chiuso il reparto di terapia intensiva aperto nell’estate 2020. Quale impatto avrà?
«La sospensione è legata alla situazione di tranquillità delle terapie intensive dedicate al Covid, non ne abbiamo più bisogno. Però, all’interno, quei 14 posti letto in più erano stati interpretati come un supporto allo smaltimento delle liste d’attesa per gli interventi chirurgici. Spero che a ottobre ci si renda conto che è opportuno riaprire un certo numero di posti letto, anche per prepararci all’inverno».
L’assessore regionale alla Sanità Donini ha annunciato tagli per rimediare al buco di 400 milioni. Sono previsti anche per il Sant’Orsola?
«Negli ultimi quindici anni siamo stati virtuosi, perché i costi sono sempre stati proporzionati ai ricavi. Anche il nostro ospedale ha però obiettivi di rientro: limiti all’acquisto di farmaci, dispositivi e sul personale. Queste sono le tre determinanti su cui lavorare. L’alternativa è il commissariamento, quindi vale la pena provarci».
Sempre Donini ha detto che “la sanità non è una priorità del Governo”. Condivide?
«Vorrei dire “quale Governo?”: questo è uno dei tanti, che, anche dopo due anni e mezzo di pandemia, non ha fatto abbastanza».
Il sistema sanitario nazionale è colpito da una grave carenza di medici e infermieri. Quali sono i vostri reparti dove insistono più lacune?
«Siamo in una condizione di privilegio. Il Sant’Orsola, per le sue strutture e potenzialità, è un grande “parco giochi” per studenti. “Alleviamo” medici che tendenzialmente vogliono rimanere. Grazie a questa attrattività riusciamo a reclutare per i concorsi. Ma ci sono specialistiche per cui abbiamo difficoltà come Ginecologia, Ostetricia e la Medicina di urgenza».
Poi c’è il problema di reperire medici in zone periferiche o di Appennino.
«Lì pesa sia la distanza dal centro sia la “solitudine”: negli ospedali più piccoli il medico spesso lavora da solo, a differenza del Sant’Orsola in cui è supportato sempre da altri professionisti».
Cosa ne pensa dell’allargamento del numero chiuso per le facoltà di Medicina?
«Il problema non è quello, ma il post laurea. Il sistema delle specialità è diventato un limite, perché ad esempio in pronto soccorso possiamo assumere medici solo specializzati, e quindi trascorrono più anni. Prima di aprire il numero chiuso, serve che l’Università ripensi a come formare medici che siano tre volte il numero di adesso. A Ferrara, i posti per gli studenti di Medicina sono aumentati fino a 600, ma ora non riescono a far fare loro i tirocini».
Ma quello dei medici non è l’unico
problema.
«C’è un’emergenza ancora più grave: mancano gli infermieri, perché la loro professione è poco attrattiva e mal pagata. Va valorizzata prendendo a modello altri Paesi, come la Gran Bretagna».
Poi ci sono i tempi di attesa: per diagnosi e interventi si sono allungati negli ultimi anni e secondo Agenas ogni italiano spende 1.700 euro l’anno per la sanità privata. Cosa si fa per abbattere le liste sempre più lunghe?
«Con grande sforzo siamo riusciti a smaltire circa la metà di quanto accumulato durante la pandemia e abbiamo al momento circa 18.000 pazienti in lista d’attesa con una capacità, nel 2022, di 27.000 in un anno. La paura è che dovendo attuare politiche di contenimento del personale, alla fine si rallenti anche sui ricoveri. La situazione di ricorso al privato dipende anche da condizioni di fragilità del sistema: spesso si va dal medico di base con un sintomo e l’esame non viene prescritto, ma il paziente comunque decide di farlo privatamente».
Quante sono le prestazioni che vengono fatte intramoenia al Sant’Orsola e che valore economico ricoprono?
«L’intramoenia da ricovero è stata sospesa dall’inizio della pandemia, con “gran mal di pancia” del personale. Si effettua solo la libera professione ambulatoriale, ma pesa poco sul bilancio: cinque milioni l’anno, su quello complessivo di 800. Che potrebbero essere gestite direttamente nel suo ambulatorio».
Cosa si fa per ridurre i tempi di attesa al pronto soccorso che sono arrivati anche a 27 ore? Qual è il tempo medio d’attesa in questo momento?
«Il codice rosso non aspetta, il codice giallo aspetta mediamente due ore. I codici bianchi e verdi si aggirano intorno alle quattro/sei ore. Il problema è il passaggio successivo, il cosiddetto boarding, cioè il momento in cui bisogna pianificare un ricovero, perché abbiamo 40/60 posti letto occupati da anziani o fragili che non hanno più le condizioni cliniche per giustificare un ricovero ma che non riusciamo a dimettere. Il 10% della popolazione sopra i 75 anni che entra in pronto soccorso non può andare via perché non ha una condizione abitativa, familiare che lo consenta».
Nei pronto soccorso in Italia sono stati denunciati 130.000 casi di aggressione verbale, ma anche fisica al personale sanitario. Come stanno le cose a Bologna?
«Qui abbiamo una situazione ordinaria, e le reazioni di aggressività sono legate a fragilità personali o a eccesso di sostanze. In confronto ad altre zone d’Italia, siamo in un “paradiso”. Un collega di Napoli mi ha riferito che più volte lì vi sono stati casi di minacce con la pistola».
In questi giorni in molti parlano di gestazione per altri facendone una questione politica. Come si sta muovendo il dibattito all’interno della comunità scientifica e che tipo di ricerca c’è sul tema al Sant’Orsola?
«Siamo centro di procreazione medicalmente assistita e stiamo ragionando anche sulla possibilità di diventare centro per il trapianto di utero. Sulla questione maternità surrogata, invece, la mia è un’opinione personale: c’è un tema di fragilità della donna, che va tutelata. La scelta spontanea della maternità surrogata rappresenta una fascia assai limitata. Le donne che si prestano senza avere un’esigenza economica sono poche e mi preoccupa capire perché arrivano a fare questa scelta».
La legge 194 sancisce il diritto all’aborto, eppure in Italia ci sono strutture sanitarie con una percentuale alta di obiettori. Questo dato rappresenta anche la vostra realtà? Sarebbe giusto rivedere il testo di legge?
«Non abbiamo problemi legati all’obiezione di coscienza, anche perché stanno aumentando molto le altre forme di aborto, come quello farmacologico, meno traumatico sia per la donna che per gli operatori. Credo che la legge si potrebbe impegnare di più sul tema delle forme alternative, favorendo la possibilità di somministrare la pillola abortiva anche nei consultori e negli ambulatori. Inoltre penso che dietro a molte obiezioni non ci sia soltanto un tema etico, ma anche frustrazione, perché è una pratica non gratificante dal punto di vista professionale. Bisognerebbe capire come tutelarlo, rendendolo meno frustrante».
Come sta entrando l’Intelligenza artificiale dentro le vostre strutture?
«Abbiamo avuto specifico mandato dal Ministero di fare ricerca. Stiamo lavorando sia sul versante diagnostico, con la digitalizzazione delle immagini, ad esempio sulle Tac al polmone per capire l’evoluzione dei noduli polmonari, sia sul tema dei trapianti per capire tramite l’IA qual è l’organo più adatto per il ricevente».
Altri utilizzi potenziali?
«Tutta la popolazione di Bologna si sottopone periodicamente ad analisi del sangue e dando questi numeri in pasto a un algoritmo si potrebbe identificare precocemente la parte che va incontro a determinate patologie, ma in Italia su questo campo resta forte il tema della privacy».
L’articolo è stato realizzato per Quindici (qui), il quindicinale del Master in Giornalismo dell’Università di Bologna. (Photo credits: InCronaca)