A un mese dallo scoppio della guerra nel Levante, si moltiplicano le iniziative della società civile per chiedere un “cessate il fuoco”. Dopo le manifestazioni del Portico della Pace e quelle a sostegno del popolo palestinese, in questi giorni due petizioni nate in seno alla comunità accademica bolognese (una delle quali anonima) hanno raccolto più di 650 adesioni
di Pier Francesco Di Biase, caporedattore cB
Sta avendo un’eco senza precedenti la tragedia che, ormai da un mese, sconvolge il Levante. Dopo i 1400 morti israeliani lasciati sul terreno dall’offensiva di Hamas, sono già 10mila le vittime (in maggioranza donne e bambini) uccise dai bombardamenti indiscriminati dell’Idf sulle infrastrutture civili della Striscia di Gaza, a cui è stato contestualmente imposto il blocco di acqua, elettricità e carburante.
Azioni che sono state definite «crimini di guerra» dalle Nazioni Unite e dalle principali ong del pianeta, Amnesty International e Medici senza frontiere in testa. E che hanno portato milioni di persone in tutto il mondo a scendere in piazza per chiedere il “cessate il fuoco” e il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese, in ottemperanza alle decine di risoluzioni Onu che, in questi 75 anni, hanno denunciato l’«occupazione militare» e il «regime di Apartheid» imposto dalle autorità israeliane sui territori palestinesi.
A fare da contraltare a questa sollevazione globale, mentre la stampa tradizionale viene per l’ennesima volta superata dalla vitalità dei social media, sono state le reazioni politiche italiane e occidentali e talvolta il mutismo selettivo di alcunə leader, che hanno lasciato interdetta larga parte dell’opinione pubblica, soprattutto a sinistra. E forse mai come questa volta, perlomeno nel XXI secolo, si è registrata una spaccatura così netta tra la società civile e le élite politiche, economiche e mediatiche che, già da molto tempo, non godono di buona fama.
Bologna non ha fatto eccezione. E se Comune e Rettorato rimangono sostanzialmente in silenzio, dopo le manifestazioni di piazza per la pace e a sostegno del popolo palestinese è toccato alle autorità religiose (qui) e a gruppi di docenti e ricercatori attivarsi per tenere alta l’attenzione sulla tragedia in corso. Ne sono nate negli ultimi giorni due petizioni, che per ora hanno raccolto circa 650 adesioni. Entrambe convergono sulla necessità di arrivare a un “cessate il fuoco” utilizzando anche lo strumento del boicottaggio istuzionale per spingere il governo Netanyahu, che da quell’orecchio non ci sente, a fermare il suo esercito. Ma se la prima (qui) è rivolta dai docenti ai colleghi e dirigenti di Ateneo, la seconda (qui), firmata con il nome collettivo di “Cittadine bolognesi”, è aperta alla cittadinanza e chiama direttamente in causa il sindaco Lepore, affinché venga istituito il lutto cittadino per le vittime. Alle autrici abbiamo chiesto di chiarire meglio l’obbiettivo della petizione.
Nel testo vi definite «madri, donne e cittadine» e utilizzate un nome collettivo. Quali sono i motivi di questa scelta?
«Nella petizione usiamo il femminile e il termine “madre” perché era quello che più in queste settimane terribili ci risuonava intimamente. Tuttavia, l’uso è puramente simbolico e fluido, aperto a essere modificato. Il nostro appello è stato infatti firmato da persone di qualsiasi età e senza figli. Speriamo, come già sta avvenendo, che altrə si approprino dell’appello a un lutto cittadino, anche in altri comuni, utilizzando i termini che preferiscono. Quello che ci interessa è insistere sul legame affettivo e umano. I servizi trasmessi nei giorni scorsi dalle tv arabe hanno mostrato immagini terrificanti sul salvataggio di quattro bambini prelevati vivi dalle macerie dopo il bombardamento del campo profughi di Mughazi. I loro corpi feriti che tremano come foglie invece non saranno mai mostrati in Italia. Per settimane i nostri media, dalla televisione alla stampa, si sono limitati a esaltare la tecnologia militare “chirurgica” dell’esercito israeliano, mostrando i cieli di Gaza sotto i bombardamenti come se si trattasse di fuochi d’artificio: hanno idolatrato la violenza e nascosto l’orrore umano sotto le macerie».
Parlando con alcune di voi, è emersa la preoccupazione che una presa di posizione pubblica come la vostra possa esporvi a forme d’odio. È questa la ragione del vostro anonimato?
«La società in cui viviamo – soprattutto sui social media – partecipa a creare una cultura dell’odio gratuita. Abbiamo assistito anche a episodi di censura e di pressione su studiosi, artisti e intellettuali, su tutti Patrick Zaki e Zero Calcare, che si sono pronunciati in modo critico su quanto stava avvenendo. Tuttavia, l’anonimato che abbiamo scelto non è soltanto legato al timore di esporsi a forme d’odio quanto alla necessità di non indugiare in personalismi: la petizione così diventa di chi la firma. L’idea è quella di renderla replicabile anche in altri comuni».
In queste settimane di guerra l’associazionismo bolognese si è mosso molto. A Bologna le marce per la pace e in solidarietà con la popolazione civile di Gaza si moltiplicano, come nel resto del mondo, chiedendo un “cessate il fuoco” immediato. In altri anni tutto questo sarebbe stato impensabile. Secondo voi qualcosa è cambiato nella società civile globale?
«A Bologna, diverse ong e associazioni hanno una lunga esperienza con personale e colleghi presenti in Israele e Palestina e conoscono perfettamente la gravità e la complessità della situazione. L’opinione pubblica italiana ed europea negli anni ’70, durante la prima Intifada, era fortemente schierata a sostegno del popolo palestinese. Le cose sono cambiate con la seconda Intifada, gli attacchi suicidi nelle città israeliane e poi, soprattutto, con Oslo: è come se l’opinione pubblica si fosse convinta che se palestinesi e israeliani non avevano trovato un accordo ciò era da addebitarsi all’Olp di Arafat, che aveva fatto “i capricci”. In realtà basta studiare con attenzione le clausole degli accordi per capire le ragioni per cui non poteva funzionare.
Oggi le persone sono consapevoli, nonostante i principali mezzi di informazione abbiano fatto di tutto per confonderle, che siamo di fronte a un massacro di civili innocenti che ha pochi precedenti nella storia del XXI secolo, come anche Chris Edge, storico corrispondente di guerra del New York Times, ha scritto in questi giorni. Raz Segal, illustre studioso israeliano che si occupa da una vita di Olocausto e genocidio, ha definito quello che sta accadendo a Gaza “un esemplare caso di genocidio” e la sua analisi è stata ripresa da molteplici autorevoli portavoce delle Nazioni Unite. Ma al di là delle parole da utilizzare per definire questo massacro, crediamo che ci sia coscienza ormai del fatto che sta accadendo qualcosa di veramente orribile con il colpevole silenzio-assenso di chi ci governa.
Questo silenzio è stato una gravissima responsabilità di molti politici europei. Dall’America latina al Sud Africa c’è invece una coscienza collettiva globale che si sta risvegliando, e anche il tessuto sociale italiano è cambiato in questi ultimi decenni. Le nostre piazze sono abitate anche da tanti cittadini italiani con forti legami con il Sud globale che stanno prendendo la parola. Questi nuovi cittadini italiani, che portano la ricchezza del plurilinguismo, hanno accesso ad altre fonti di informazione che stanno raccontando questo conflitto in modo dettagliato e approfondito, con decine di corrispondenti sul posto che minuto dopo minuto, massacro dopo massacro, documentano quello che accade».
Anche la Chiesa, per bocca del cardinale Zuppi, ha assunto una posizione chiara per la pace e il “cessate il fuoco”. Lo stesso hanno fatto la comunità islamica e quella ebraica. Dalle altre istituzioni invece, Comune e Università in testa, soltanto qualche timida uscita personale. Eppure, così non è stato per la guerra in Ucraina e la detenzione di Patrick Zaki. Perché secondo voi?
«Non stupisce la posizione di Zuppi e della Chiesa. I bombardamenti dell’esercito israeliano, d’altronde, in questi giorni non hanno risparmiato la comunità cristiana che vive a Gaza e hanno colpito anche una chiesa ortodossa il 20 ottobre, uccidendo decine di persone che vi avevano trovato rifugio. Cristiani e musulmani palestinesi vivono da sempre in Terra Santa, senza alcun conflitto, perseguitati allo stesso modo da Israele. Tante sono anche le comunità ebraiche praticanti e non in giro per il mondo che manifestano per il “cessate il fuoco”. Come ha detto Moni Ovadia citando il Levitico: “Se gli israeliani ragionassero da veri ebrei che seguono l’etica della Torah, non farebbero della terra un idolo e tratterebbero i palestinesi come ci insegnano. Amerai lo straniero. Ricordati che fosti straniero in terra d’Egitto”. Sono molti anche i gruppi di ebrei ortodossi come i Naturei Karta che, da sempre, si oppongono con fermezza alle politiche sioniste dello stato Israeliano.
Non stupisce nemmeno che Università e comuni facciano invece tanta fatica a prendere posizione: Israele è un progetto coloniale che affonda le proprie radici nella nostra cultura. In un certo senso, Israele siamo noi. Sono dunque gli accordi diplomatici, le collaborazioni universitarie, le manifestazioni culturali in Europa e nel mondo Occidentale in genere che tengono in vita l’idea stessa di Israele nel mondo, qualcosa che abbiamo creato noi, forti del senso di colpa di avere prima sterminato un intero popolo nell’Olocausto, tentando disperatamente una riparazione in terra d’altri.
Per la cultura e le politiche europee ammettere di avere in un qualche modo creato qualcosa di mostruoso, denunciare i crimini di Israele e riconoscere in quanto tali questi 75 anni di occupazione significa guardarsi allo specchio e rivedersi senza maschera, fondamentalmente bruttini. Da questo bagno di realtà serve ricominciare, senza ricorrere a inutili chirurgie estetiche».
In copertina: il campo profughi di Jabalya, Gaza, dopo i bombardamenti dell’esercito israeliano dello scorso 31 ottobre (Photo credits: Reuters)
Non posso aggiungere nulla ad un testo intervista che mi tocca profondamente perché espone con grande coraggio verità ineludibili anche se questa verità imbarazza politici e istituzioni. . Siamo scesi in piazza più e più volte per chiedere giustizia per Patrick Zachi…..Ora questo silenzio questa assenza mi fa pensare ad una acquiescenza insopportabile. Grazie a te Pier Francesco che scrivi rompendo un silenzio assordante