Una controffensiva sulle reti sociali alle fake news del populismo: dopo la morte delle ideologie, per fermare il delitto e salvare la democrazia servono parole chiare e soprattutto vere.
di Giampiero Moscato, giornalista
La politica è morta, si dice. Qualcuno replica: hanno ammazzato la politica ma la politica è viva. Noi crediamo si tratti di un delitto non ancora compiuto, dunque un tentativo purtroppo ancora in atto. Per questo riteniamo che tutti coloro che credono nella democrazia debbano sentire loro obbligo, giuridico e morale, fare di tutto per impedire l’evento: l’omicidio della civile convivenza.
La politica è un malato grave. Non v’è dubbio. Non sarà però di certo sopprimendola che si farà il bene comune. La si deve curare, rimediando ai guasti che l’hanno inquinata, per dare stille di vita alla politica e anche alla forma più elevata di relazione umana, la democrazia parlamentare. Certamente fatti di malaffare, di corruzione e di incompetenza hanno minato la credibilità della classe dirigente, così come la morte delle ideologie ha affievolito la passione civile.
Ma c’è un fattore più subdolo alla base del morbo: la fine della intermediazione. L’avvento delle reti sociali, la possibilità di saltare il confronto con i corpi intermedi hanno fornito all’antipolitica un’arma formidabile. Se, in una fase precedente della crisi della nostra democrazia, a un tycoon miliardario quale Silvio Berlusconi, invischiato in evidenti conflitti di interesse, bastò usare le sue televisioni e i suoi giornali per formare il consenso che diede il successo alla sua creatura politica, negli anni più recenti, non solo in Italia, non è nemmeno più servito essere proprietari di mezzi di mediazione di massa. Ai populisti è stato sufficiente usare con strategie mirate, spregiudicate e propagandistiche, i social network – i post su Facebook e i cinguettii su Twitter – per dare una spallata all’intermediazione giornalistica, alle classi dirigenti, alla politica.
Parlano direttamente al popolo, insomma, senza sottoporsi al contraddittorio e alle domande, che sono il sale della democrazia. Qualcuno ha creduto, magari in buona fede, che fosse un balzo in avanti della libertà di espressione: la famosa “democrazia del web”. È apparso invece evidente che senza qualcuno che faccia un controllo in diretta (secondo un aforisma del giornalismo, se uno dice che fuori piove e un altro dice che c’è il sole, non basta citarli entrambi ma bisogna aprire quella benedetta finestra e vedere chi dei due mente) sono passati messaggi falsi e calunniosi (le fake news che tutti condannano ma che in tanti sfruttano), sono state create paure per fatti inesistenti o largamente sottodimensionati rispetto alla percezione diffusa. La rivoluzione culturale M5s, se qualche merito ebbe, ha avuto la colpa gravissima di convincere un numero enorme di persone che la politica (degli altri) fosse necessariamente sporca. Che dunque tutti i politici (sempre gli altri) fossero uguali. É una sciocchezza, ancor prima che calunnia o avvelenamento di pozzi. Ma soprattutto è un boomerang: c’è sempre qualcuno più spregiudicato di te, come insegnano la Lega di Matteo Salvini e la crisi del governo gialloverde. Senza scomodare le falde inquinate della politica nostrana, si può ricorrere allo straordinario intervento della giornalista Carole Cadwalladr al convegno Ted di Vancouver dell’aprile scorso. La cronista dell’Observer che aveva tolto il coperchio allo scandalo di Cambridge Analytica (per questo espulsa a vita da Facebook), all’indomani della vittoria della Brexit al referendum era stata mandata nel suo paese natale, Ebbw Vale, nel Galles meridionale, per un reportage sui motivi che avevano spinto il 62% dei gallesi a dire sì all’addio all’Unione europea. Il suo discorso è memorabile.
Suggeriamo di andare sui motori di ricerca (faranno danni, ma sono anche utilissimi): basta inserire il nome della giornalista che viene fuori il video del suo speech con traduzione integrale. Qua vale la pena di ricordare che quando se ne era andata dal Galles le fabbriche erano chiuse e invece nel 2019 erano riaperte. Che grazie a quasi a un miliardo di sterline finanziate dall’Unione Europea ora ci sono un nuovissimo college, uno splendido centro sportivo al centro di un progetto di rigenerazione urbana, una nuova superstrada, una stazione e una linea ferroviaria in più. Eppure la gente le diceva di aver votato Leave “perché l’Unione Europea non aveva fatto nulla” per loro. E che non ne potevano più di immigranti e rifugiati. Il che era abbastanza strano. Nel paese viveva solo una straniera, una signora polacca, mentre le cifre dicevano che quel distretto ha uno dei più bassi tassi di immigrazione del Galles. I giornali di destra scrivevano robe del genere, ma quella era un’area a forte maggioranza di sinistra, non si leggevano molto quei giornali. Il dibattito sul referendum in realtà si era svolto in prevalenza “su Facebook. E quello che accade su Facebook – disse ancora la cronista – resta su Facebook. Perché soltanto tu sai cosa c’era sul tuo news feed, e poi sparisce per sempre. Così non abbiamo idea di quali annunci ci siano stati, o di quali dati personali sono stati usati per profilare i destinatari dei messaggi. O anche solo chi li ha pagati, e di quale nazionalità. Facebook ha tutte queste risposte ma si rifiuta di condividerle”.
Questo è quello che capita anche alle nostre latitudini: così ci sentiamo invasi dall’immigrazione clandestina quando invece è accertato che sono molti di più i nostri giovani che emigrano all’estero di quanti disperati, scappando da guerre e fame, in poche migliaia ogni anno arrivano nelle nostre città. Ma sui social c’è chi dice che ci stiamo addirittura islamizzando e troppi credono sia vero.
Ci sono cose che la politica deve imparare da queste lezioni. Imparare a parlare chiaro e semplice, a mettere in circolo con nitidezza quali sono i progetti più importanti e le cose fatte, per stare da protagonisti nelle reti sociali. Per reagire alle bufale populiste. Riservando gli approfondimenti alle altre piattaforme. Per una sinistra che voglia ridare voce al suo tradizionale elettorato e recuperare i troppi ex sostenitori, bisogna imparare a parlare i nuovi linguaggi. E battersi per una libertà di stampa sempre più urgente. Per una politica libera e forte serve una stampa libera e forte. Servono editori puri. Serve una scuola sempre più attenta. Uno degli oltraggi più gravi delle campagne di disinformazione è quello di demonizzare la classe politica intera: negando gli sforzi fatti per impedire che in Italia accadesse qualcosa di simile a ciò che è toccato alla Grecia. Come se non si fosse fatto molto, ad opera di alcuni governi di centro-sinistra, per mantenere un livello di welfare decente, una sanità che continua a primeggiare, una scuola che continua a sfornare ancora tante eccellenze. In una frase, per salvare il Paese. Se non dal default, sicuramente da un declino violento. La sinistra deve imparare a controbattere sul terreno delle reti sociali il suo nemico più insidioso: la propaganda, la faziosità a mezzo di fake news. Senza cadere nell’errore di scendere a quel livello. Volando semplicemente alto. È a sinistra che c’è la speranza. Noi stiamo a sinistra anche scrivendo per Cantiere Bologna. Uno dei nostri modi di impedire l’omicidio della politica.
Se c’è speranza è nell’uomo. Se la sinistra può nobilitare una politica culturalmente così povera di valori e conoscenza non è certo sentendosi investita di proprietà taumaturgiche. I più realisti del re provocavano solitamente a un comune amico un sorriso (sotto i baffi) ironico e disincantato. L’idea del cantiere è ottima, cerchiamo di preservarla da cristallizzazioni e militanze. Con i saluti più cordiali
gianluigi magri