Superiori a Bologna: uno su due opta per il Liceo. Nonostante le mille riforme e sperimentazioni le famiglie scelgono ancora seguendo più le dinamiche di ‘classe’ che le attitudini, assecondando una logica vecchia
di Cristian Tracà, docente
Febbraio. È tempo di numeri, bilanci, iscrizioni, tendenze. I ragazzi bolognesi al termine dei mesi di “open day” e orientamento di vario tipo hanno scelto per il loro futuro distribuendosi per il 50 per cento nei Licei, per il 37 nei Tecnici e per il 13 nei Professionali, senza grandissime oscillazioni rispetto all’anno scolastico precedente, nonostante una crescita del 2,5% delle domande.
A torto o a ragione, queste scelte disegnano in qualche modo una parabola: il Paese, le sue politiche culturali, la diversità interna, la correlazione tra reddito, cultura e prospettive di lavoro; questi dati in fondo raccontano nella loro evoluzione il cambiamento di percezione su che cosa sia utile studiare e cosa no, su quale sia il rapporto tra formazione tecnica e tecnologica, da una parte, e saperi umanistici, dall’altra.
Siamo in fin dei conti ancora un Paese che naviga a vista non riuscendosi a scrollare di dosso l’ombra gentiliana? I tentativi di riforma negli ultimi vent’anni sono stati parecchi, soprattutto in direzione della liceizzazione dell’istruzione (erano gli anni Moratti) e della semplificazione delle specializzazioni (epoca Gelmini); poi sono arrivate le sperimentazioni e le innovazioni in corso: su tutte la scommessa della personalizzazione della didattica nei Professionali (un tutor per ogni studente e unità didattiche studiate diversamente). Tutto molto interessante, si direbbe. Peccato che lo zoccolo duro concettuale della nostra formazione secondaria richiami ancora, di fatto, il modo di pensare la società di Giovanni Gentile e quella vulgata, scolpita nell’inconscio collettivo, secondo la quale gli alunni bravi (o appartenenti a famiglie con redditi medio-alti) scelgono i Licei, quelli con meno voglia di studiare e famiglie di ceto medio si indirizzano verso i Tecnici, e il gruppo restante (che oscilla tra il 10 e il 15 per cento circa) va al Professionale perché ha disturbi dell’apprendimento, difficoltà di concentrazione, scarsa alfabetizzazione, provenienze familiari che non garantiscono di poter arrivare ai traguardi del diploma o della qualifica. Tutto il resto va un po’ a farsi benedire, compresa la predisposizione significativa verso un argomento o un tipo di indirizzo, elemento che invece dovrebbe essere alla base della formazione. Capita così che persone che odiano l’economia e il calcolo facciano la vecchia ragioneria, umanisti non riconosciuti si iscrivano al Liceo Scientifico.
Il discorso pubblico, con un po’ di ipocrisia, nega questa gerarchia implicita, allineando, per esempio, i traguardi di sviluppo per la lingua italiana e la prima prova di maturità, o omologando la parte generale dei piani di studio, ma i risultati delle prove Invalsi e i vari studi ci mostrano una profonda e netta divisione di classe, anche se probabilmente per qualcuno questa può essere definita una terminologia che fa riferimento a paradigmi non più utili per analizzare la società complessa, o meglio ancora liquida, entro cui siamo immersi.
Poi c’è la realtà, che ci inchioda sui fatti: i genitori che davanti al consiglio orientativo dei docenti della scuola secondaria di primo grado manifestano stizza e delusione, se non rabbia, perché vivono come umiliazione il declassamento rispetto al loro orizzonte d’attesa o al proprio blasone.
Gli Istituti professionali, compressi tra la scommessa più laboratoriale della formazione professionale e i vorrei ma non posso della modulistica ministeriale che in qualche modo li presenta come istituti tecnici semplificati, calano rovinosamente, anche se in Emilia-Romagna meno che altrove: spesso a precederli è la fama di ghetto o di ultima spiaggia, luoghi da frequentare solo in seconda battuta, se proprio non si riesce ad essere promossi altrove. Con effetti devastanti e pericolosi.
La discontinuità della didattica la fa da padrona e i docenti davanti a classi numerose, e molto problematiche, scappano, appena possono (poche le eccezioni). Questo clima di cambiamento continuo, di interruzione costante, moltiplica negli alunni l’impressione di essere l’anello debole, con buona pace della pedagogia del costruttivismo e dell’autostima: i ragazzi sanno che i professori scapperanno, si meravigliano se non avviene e sviluppano un senso di abbandono che si sovrappone al meccanismo di pregiudizio nei loro confronti. Questa frustrazione, questo senso di emarginazione, diventano spesso tossici, difficilmente gestibili, vanificano la maggior parte degli sforzi della scuola di essere guida in mezzo alle difficoltà, specie nel primo biennio quando problemi dell’adolescenza e dinamiche di gruppo formano una combustione micidiale.
In un sistema complesso in cui la didattica tende e vira sempre di più verso le modalità attive e inclusive di insegnamento, cercando di superare la lezione frontale esclusiva, ha ancora senso una scuola basata su gerarchie implicite di complessità legate alla differenza tra teoria e pratica? In un sistema che richiede specializzazioni sempre più acute, che non sempre corrispondono nell’offerta dei Licei e dei Tecnici, non sarebbe più utile e produttiva una scelta netta di campo verso un cambiamento radicale della Scuola in direzione della diversificazione tematica senza patenti di superiorità? Qual è il costo sociale di un sistema che non riesce a combattere il progressivo scollamento di una parte della propria istruzione?
Ciao Cristian
Sia in questo tuo intervento, che in altri precedenti che avevo avuto modo di leggere su FB, avevo notato e apprezzato la tua competenza e interesse per il mondo dell’insegnamento ed ho apprezzato molto questo tuo intervento che mette in evidenza molti dei problemi attuali della scuola.
Nel tuo intervento apri una serie di domande fondamentali a cui una società ed una classe politica serie, cercherebbero di dare risposte urgenti.
Io non sono certo in grado di dare nessuna di queste risposte, nemmeno suggerimenti.
Posso però descriverti la mia esperienza, soprattutto per ampliare il discorso sulla scelta che gli studenti hanno davanti quando devono scegliere la scuola media superiore (credo che la definizione corretta non sia più questa, ma penso che poco importi. L’importante è capirsi.)
Quando è successo a me di fare quella scelta, eravamo all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso e all’Università si accedeva solo attraverso gli esami di maturità di fine liceo, classico o scientifico.
Gli studenti degli istituti tecnici, non potevano andare all’Università, a meno di non sostenere un esame integrativo di maturità.
La mia famiglia non nuotava nell’oro e la mia scelta, quasi obbligata, fu di frequentare l’Istituto Aldini Valeriani che allora era a Bologna l’eccellenza degli Istituti tecnici e garantiva un lavoro dopo il diploma.
Cinque anni dopo mi sono diplomato come Perito Chimico e, nel frattempo, ci fu una riforma che permetteva di accedere ad alcune Facoltà universitarie, anche senza avere frequentato il liceo.
Fortunatamente per me le condizioni economiche della mia famiglia, mi permisero di iscrivermi alla Facoltà di Chimica dell’Università di Bologna dove mi sono laureato nel 1972.
Nonostante la laurea a pieni voti in Chimica, la mia carriera successiva si è però sviluppata nell’informatica, ovvero in un campo lontanissimo da quello del percorso di studi. Alla luce della mia esperienza posso dire che:
– Non sono le nozioni apprese nel percorso scolastico che possono permettere di “vivere di rendita” nella successiva vita lavorativa.
E’ importante imparare a studiare, ad aggiornarsi, a sviluppare le capacità di analisi e di sintesi, senza le quali non è possibile adeguarsi alle modificate condizioni dell’attività lavorativa e della società.
Nessun campo come l’informatica è cambiato così tanto nel giro del quasi mezzo secolo che abbiamo alle spalle.
Ho avuto la fortuna di riuscire ad adeguarmi ed a sopravvivere dai tempi delle schede perforate di allora alle reti di computer ed ai social network di oggi.
– In una facoltà scientifica come Chimica, nei primi due anni si notava una grossa differenza fra i diplomati in Chimica ed i liceali scientifici o classici.
Stessa differenza, capovolta, si vedeva nelle materie come Fisica e Matematica.
Questa differenza si assottigliava e scompariva però nel triennio successivo.
– Potendo vivere una seconda volta, o se avessi un figlio da indirizzare, a prescindere dal censo, sceglierei sicuramente un liceo classico o scientifico a seconda delle attitudini della persona, perché ritengo che una cultura umanistica, associata alla filosofia ed allo studio del latino, siano una palestra mentale di fondamentale importanza.
Personalmente patisco ancora la lacuna di non avere mai potuto studiare Filosofia.
Questa è la mia esperienza. Io vedo la scuola come una istituzione che deve essere in grado di valorizzare le doti di ciascuno, e di fornire ed affinare gli attrezzi con cui affrontare la vita successiva, dove nulla verrà dato per scontato o nulla sarà dovuto.
Sarà necessario e fondamentale lavorare in gruppo.
I comandamenti principali, a mio avviso, sono sempre di più: Studiare, aggiornarsi e rinnovarsi.