Il dato saliente non è tanto che Salvini ha perso, ma che Bonaccini ha vinto, a un passo dell’en-plein di Renzi alle Europee 2014. Resta un preoccupante divario centro/periferie
di Pier Giorgio Ardeni
Le elezioni in Emilia-Romagna hanno segnato un risultato importante per i nuovi equilibri politici che ha delineato. Ma hanno anche messo in luce che vi sono fratture nel corpo sociale che permangono.
L’onda verde “sovranista” di Salvini è stata fermata, grazie al sussulto democratico dell’antico cuore rosso che, chiamato all’appello e risvegliato dalle sardine, si è recato alle urne per dire “no pasaran”. Il dato saliente, a questo proposito, non è tanto che è Salvini ad avere perso, quanto che è il centro-sinistra ad avere vinto, sconfiggendo i pronostici che lo davano battuto. Stefano Bonaccini, governatore uscente, ha raccolto quasi un milione e 200 mila voti, ottenendo un risultato di poco inferiore (16 mila voti) al clamoroso en-plein del Pd renziano delle europee del 2014 e “riportando a casa” del centro-sinistra più di 400 mila voti che erano mancati all’appello del voto europeo il 26 maggio scorso. La coalizione di centro-destra, da parte sua, ha invece confermato il suo bacino di più di un milione di consensi, che non le è stato sufficiente, però, per conquistare il primato regionale. L’assalto leghista al fortino rosso, pertanto, è stato respinto.
Il Partito democratico ne esce tonificato, anche se è il governatore ad attrarre più voti delle liste che lo sostenevano. Se è vero, infatti, che la Lista Bonaccini – pensata per attrarre i voti di chi non voleva dichiararsi esplicitamente a favore del Pd – porta a casa un 5.8% e le altre quattro liste prendono complessivamente il 7,6%, di cui il 3,8% alla Emilia-Romagna Coraggiosa di Elly Schlein (che raccoglie da sola ben 22 mila preferenze, un record), è pur vero che il Pd mette insieme un dignitosissimo 34,7% dei voti, di cui ora può andare giustamente fiero. Certo, è stato il richiamo “ancestrale” a difesa dei valori di un modello che ha contato, ma tant’è, la chiamata all’appello ha funzionato. La Lega, dal canto suo, ottiene il 31,95% dei consensi, mentre i Fratelli d’Italia si attestano all’8,6%. Il che indica un solido radicamento del centro-destra in regione anche se il richiamo “sovranista” è stato respinto. Così come è stato quasi annientato l’altro richiamo populista, quello del M5S, che ottiene il risultato più negativo della sua breve storia, attestandosi al 3,5% dei consensi.
Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? Se l’Emilia Romagna, nel suo complesso, torna ad essere “rossa” è anche vero che è alla distribuzione territoriale del voto e tra i ceti che ora si dovrà prestare attenzione, se il Pd vorrà riconquistare appieno il suo “blocco sociale”, per guardare oltre i confini regionali. A ben guardare, infatti, vi sono fratture che sono rimaste e reclamano una risposta: il divario centro/periferia, evidenziato dalla spaccatura territoriale e lo iato tra ceti urbani, suburbani e rurali. E c’è una polarizzazione che resta la cifra di questa Italia politica.
Il divario territoriale appare consolidato e finanche accentuato nella differenza nei consensi elettorali, che vede da una parte le principali realtà urbane della regione collocate lungo la via Emilia e dall’altra le aree interne dell’Appennino e della pianura più lontane dalle città. Nei comuni con meno di 5000 abitanti, ad esempio, il centro-destra è maggioritario (con una media vicina al 55%), come in quelli fino a 15 mila abitanti (con una media del 45%), mentre nei comuni più grandi è il Pd a prevalere, largamente (nelle città con più di 60 mila abitanti il Pd arriva al 50,8%, in media). La Lega appare molto forte a Piacenza e Parma, in provincia, nei piccoli comuni appenninici e della pianura lungo il Po. Il centro-sinistra, da parte sua, raccoglie quasi il 60% dei voti nelle città, da Reggio fino a Rimini. I comuni dove il centro-sinistra è minoritario sono i comuni più deboli, a maggiore incidenza di popolazione anziana, meno vicini e meno serviti, più ai margini dello sviluppo, in cui al disagio economico e sociale si aggiungono fattori identitari, ravvivati dalle inquietudini sul destino di comunità che si percepiscono come “abbandonate”.

Al crescere della dimensione dei comuni aumenta il voto per Bonaccini
e diminuisce quello per Borgonzoni.

In arancione i comuni dove alle Europee aveva vinto il centro-destra e alle Regionali
vince il centro-sinistra. In rosso i comuni dove si conferma il centro-sinistra,
in blu quelli dove si conferma il centro-destra.


Accanto a questo, va considerato che l’affluenza ai seggi è stata del 67,7%, certo maggiore del 37,8% del 2014 ma comunque più bassa delle ultime elezioni politiche del 4 marzo 2018, quando era stata del 78,3%. Ciò significa che 1 elettore su 3 non è andato a votare. L’affluenza è stata più bassa nei comuni più periferici e peri-urbani. Ciò che mette in luce un altro aspetto del voto e una seconda frattura territoriale e sociale. La più bassa affluenza riflette infatti un distacco, una disaffezione, a cui il centro-sinistra deve guardare con attenzione se vuole trarre una lezione da questo risultato elettorale. Sono infatti i ceti che avevano raccolto il messaggio “populista” dei 5 Stelle che non hanno risposto all’appello e si sono divisi tra voto “sovranista” e astensione. Il M5S, infatti, sparisce nei comuni appenninici e in quelli più occidentali, mentre raccoglie appena qualcosa nelle realtà peri-urbane. È nei comuni dove la concentrazione di reddito nelle fasce alte che il centro-sinistra raccoglie maggiori consensi, mentre ancora fatica nei comuni a maggiore concentrazione di reddito nelle fasce basse. Nei comuni urbani e peri-urbani i M5S aveva trovato il suo bacino di voti tra i ceti medio-bassi ed è in questi comuni e tra questi ceti dove il centro-sinistra ancora arranca.
Esiste quindi una frattura territoriale che appare evidente – non solo nelle percentuali ma anche nell’affluenza, maggiore nei centri e minore nelle periferie – ed è a questa che il centro-sinistra dovrà fare attenzione se vorrà trarre indicazioni rispetto alle sue prossime scelte politiche. I ceti urbani e suburbani meno protetti sono solo in parte “tornati all’ovile” sotto l’ala protettrice del centro-sinistra, evidentemente rifiutando il richiamo populista sovranista e securitario di Salvini. E se, in questo, è stato il liquefarsi della proposta 5 Stelle a favorire il ricollocamento a sinistra, non di meno vi sono fasce sociali – giovani e meno giovani, urbane, precarie – che oggi reclamano attenzione. I ceti urbani progressisti hanno trainato una riscossa sociale che – al di là dell’apparente “buonismo” del richiamo delle sardine – oggi esprime bisogni di rappresentanza e di proposta di cui un rinnovato centro-sinistra dovrà farsi carico. Guai se il Pd interpretasse questa sua riconquistata fiducia come un mandato elitario, delle realtà urbane più “avanzate” e “moderne” contro i “lasciati indietro”. Ciò che il voto esprime è che questo non è certo un retour à la normale. C’è un vuoto politico che va colmato. L’arrembaggio salviniano ha permesso di sgombrare il campo dall’equivoco di un populismo “né di destra né di sinistra”: il populismo, che fa leva sulla chiusura identitaria e anti-multi-culturale, è autoritario, e quindi di destra. Solo una proposta “di sinistra” può essere una risposta.
C’è un dato che mostra un tratto tutto “novecentesco” di questa crisi della politica: che il ceto medio di per sé non è un baluardo della democrazia e che, di fronte all’incalzare dei ceti inferiori, non esita a preferire soluzioni “forti” e illiberali. Con la differenza che in una regione avanzata come l’Emilia-Romagna, ci sono oggi “due” ceti medi e medio-bassi: quelli urbani, protetti, cosmopoliti e globalizzati e, in definitiva, progressisti, e quelli sub-urbani, non protetti, che nella globalizzazione vedono un pericolo e che preferiscono “chiudersi”. I ceti periferici hanno trovato una risposta, ancorché illusoria, nel populismo leghista mentre quelli urbani e suburbani, soprattutto i meno protetti, hanno dato ancora debole sostegno ai 5 Stelle o non sono andati a votare, disillusi dalla chiamata populista “egalitaria” dei pentastellati ormai evaporata. Larghe fasce sul territorio non si sono espresse, non trovando evidentemente rappresentanza. E le fratture sono ancora lì: ora che il fortino è stato difeso, che si aprano i ponti levatoi, che si favoriscano quelle politiche d’inclusione che avevano fatto forte il modello emiliano d’un tempo. L’occasione è qui e ora. Prima che la cavalcata salviniana riprenda fiato e dai monti scenda nelle città. Le elezioni ci hanno fatto capire qual è la distanza tra i “due” ceti medi e se l’Italia deve, un secolo dopo, preoccuparsi di nuovo di un’involuzione illiberale della sua classe media.