Totem e tabù

Immigrazione e diritti delle donne: ciò che la sinistra non dice. E non fa

di Massimo Gagliardi, giornalista


La sinistra italiana, a parte alcune importanti eccezioni, ha fatto dell’universalismo accogliente un TOTEM senza se e senza ma. Soprattutto nella narrazione giovanile. Chi viene viene. Al resto (servizi, alloggi, lavoro, integrazione, disparità sociali), ci si penserà. Ecco a parer nosto il primo, enorme errore. Errore politico, errore di governo ma soprattutto errore di presunzione e di classe. Sì, di classe. Che valore ha ospitare della gente di cui poi non ti occupi, o non ti puoi occupare, più? Che finisce per strada anche quando il sistema Sprar funziona? Insomma diciamo di accoglierli e poi li abbandoniamo al loro destino. Tanto noi, bene o male, una casa ce l’abbiamo e un reddito di cittadinanza anche. Se poi scelgono come forma di sostentamento di spacciare, ce la prenderemo con Salvini che citofona al campanello sbagliato. E se qualche nostro concittadino è costretto a conviverci e per questo non voterà più a sinistra, ce la prenderemo con le élite del Pd che non avevano capito niente. È così che pensiamo di integrarci, loro con noi e noi con loro?

E se d’integrazione vogliamo parlare per confrontarci con questi nostri nuovi concittadini, non possiamo evitare la questione delle donne immigrate, cittadine italiane a tutti gli effetti, al pari di noi. Il nostro TABÙ  è  grande come una montagna: non disturbare l’immigrato che a casa picchia sua moglie, che la segrega tra quattro mura e le impedisce finanche di parlare l’italiano. Ci sarebbe molto da distinguere ma oggi si vuole parlare di casi limite proprio per dimostrare la nostra assenza su questo fronte. La questione delle donne immigrate è un tabù che va demolito. Se non lo si affronta non ci sarà mai la tanto invocata integrazione. Quarant’anni di femminismo non sono bastati per pareggiare gli stipendi di donne e uomini, per le carriere, per crescere assieme i figli o per ridurre i femminicidi. Ma se noi maschi alfa scendevamo in piazza con le femministe quaranta anni fa, per i diritti delle donne immigrate, italiane come noi, non se la sente nessuno di lottare?

Guardiamoci attorno, ne vedremo pochissime andare in giro o a fare la spesa da sole. E provate a entrare in un consultorio: spesso è il marito che parla (e decide)  per mogli e  figlie. Scene che considereremmo umilianti per le donne italiane e invece accettiamo in silenzio per quelle immigrate. È così che pensiamo di fare integrazione? La stragrande maggioranza di loro non esce in casa. Si dirà, è la loro cultura e non ci permettiamo di discutere. Però giustamente discutevamo quando in Italia c’era ancora il delitto d’onore. E non era poi tanto tempo fa. Non parliamo dei casi di cronaca nera: ragazze rispedite ai paesi d’origine per i matrimoni combinati, ragazze pestate per una notte in discoteca o per una gonna troppo corta, un rossetto troppo vivace. Padri che uccidono le figlie “vestite come una puttana”. E noi zitti? Dove sono quelle anime candide che rivendicano il diritto alla diversità? Ma tu sei bisex, queer, cisgender o che? 

I diritti li stiamo frantumando in pezzetti così minuscoli che ci sono sempre nuove minitribù. Il fatto inquietante è che, in nome della diversità, ogni tribù, come tutte le tribù, è chiusa in sé stessa, impegnata nella spasmodica difesa del suo particulare. E al diavolo le donne immigrate segregate dai mariti. Chissenefrega.


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