La mafia a Bologna, in provincia le tracce di uomini dei boss

Ma il capoluogo non è mai stato interessato da operazioni organiche contro la criminalità organizzata

di Mario Successi


“Bologna oggi può definirsi terra di mafia”, scriveva la Direzione Nazionale Antimafia nel 2015. Era l’anno in cui deflagrò la maxi-inchiesta Aemilia contro la ‘Ndrangheta, 160 arresti e un mondo sommerso di affari portato improvvisamente alla luce. Ma il capoluogo veniva citato, per la verità, in senso ampio, per descrivere un fenomeno nuovo, appena scoperchiato dalla Procura distrettuale bolognese, concentrato però principalmente nella zona di Reggio Emilia, pur con tentacoli in altri territori della regione, in particolare Modena e in Lombardia.

Più nello specifico, negli ultimi anni non si registrano operazioni sistematiche contro la criminalità organizzata, né si ha notizia di un gruppo radicato, in modo organico, nella provincia bolognese. Questo non significa, tuttavia, che la mafia a Bologna non esista. Gli atti parlano di presenza di soggetti affiliati o contigui ad organizzazioni criminali del sud. A novembre 2018, ad esempio, la Guardia di Finanza ha arrestato due persone a Zola Predosa, ritenute esponenti della Cosca Iamonte di Melito di Porto Salvo (Reggio Calabria): sono stati sequestrati capannoni e garage, ed è stato scoperto un articolato giro di intestazioni fittizie di società. Nel Bolognese, poi, è stata trovata traccia dei Grande Aracri di Cutro e dei Piromalli di Gioia Tauro, così come dei camorristi Casalesi. Oltre ai calabresi e campani, negli anni passati è stato rilevato un transito di personaggi legati a Cosa Nostra. E non è raro che a uomini arrestati altrove vengano confiscati beni in provincia di Bologna.

Il capoluogo, come tutta la regione, è infatti per sua natura attraente per il business criminale. La ricchezza, da sempre, chiama le mafie. E l’Emilia-Romagna, dove elevata è la vocazione imprenditoriale e il tessuto economico ha grande dinamismo, non da oggi è finita nel mirino. Qui il crimine organizzato agisce spesso in modo mascherato, indossa un abito diverso rispetto alle regioni del Sud. Come rilevato dall’ultima relazione semestrale della Dia, la Direzione investigativa antimafia, le famiglie criminali non mirano al controllo militare del territorio, con azioni violente, ma preferiscono ricercare connivenze con esponenti delle amministrazioni locali, finalizzate a ottenere agevolazioni nell’assegnazione degli appalti pubblici.

Questo lo ha ampiamente raccontato l’inchiesta Aemilia, con sentenze ormai in giudicato a confermare il reato di associazione ‘ndranghetistica per il gruppo emiliano vicino ai Grande Aracri e a descrivere una criminalità calabrese imprenditrice, capace di rompere gli argini. Nel Reggiano un Comune, Brescello, è stato sciolto per infiltrazioni mafiose, primo (e per la verità unico) caso in regione. Se nel Reggiano si combatte la ‘Ndrangheta, nel Riminese, invece, ha trovato terreno la Camorra: a inizio ottobre un’operazione dei carabinieri ha rivelato l’esistenza di fronti contrapposti tra i clan per spartirsi gli affari e gruppi rivali legati ai boss Contini, Nuvoletta e Mazzarella.

Ci sono pochi strumenti che la politica locale può utilizzare per dare una mano agli organi dello Stato per impedire a questa gramigna velenosa di estendersi nel sociale. Sicuramente possono vigilare sul territorio. Sono sensori potenti, se usati con intelligenza. Possono notare che qualcosa si sta incancrenendo. E segnalare a chi ha i poteri di estirpare quel tumore.


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