Intervista a Roberta Paltrinieri, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, già Garante della partecipazione per il Comune. “La rinascita che Bologna ha sperimentato negli ultimi mesi deve moltissimo a questi processi”
di Barbara Beghelli, giornalista
Roberta Paltrinieri, classe 1964, é professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, insegna Sociologia della cultura e dei consumi al Dipartimento delle Arti. Sposata a un collega, professore di Scienze Politiche, ha due figli, entrambi studenti. Nel 2017 ha svolto la funzione di Garante della partecipazione per il Comune di Bologna.
Innanzitutto: niente in contrario se la chiamo professoressa e non professore? La differenza di genere è importante. E’ stata dura, professoressa Paltrinieri, raggiungere questo traguardo? Ha dovuto fare molte rinunce per arrivare all’obiettivo prefissato?
“La carriera accademica non è semplice perché comporta un lungo periodo di potenziamento (empowerment) e vari passaggi di ruolo, non sempre immediati. Sono diventata professoressa associata molto presto, a soli 38 anni, ma ho dovuto aspettare i 50 per coronare la mia carriera. D’altro canto questo percorso è fisiologico perché si lega alla maturazione personale e scientifica che è necessaria al ruolo. Amo molto il mio lavoro per cui non vivo il precariato iniziale e le rinunce relative vissute come un sacrificio: me l’ero prefissato come obiettivo e dedicarmi alla ricerca mi ha fatto crescere, anche come persona”.
Pensa che il mondo universitario sia ancora chiuso alle donne, ai livelli alti?
“L’Università non è un’eccezione, quindi le donne hanno fatto più fatica. Pur tuttavia il mondo universitario, soprattutto negli ultimi anni, è diventato molto competitivo e questo comporta che per realizzare obiettivi tangibili si è sottoposti a continue misurazioni delle attività di ricerca. Tutto ciò fortunatamente riguarda sia le donne che gli uomini, per cui sono certa che le donne troveranno il modo di far valere il loro merito, e infatti già si vedono dei segnali di inversione di tendenza”.
Avremo mai una Rettrice, in Alma Mater?
“Ah, chi può saperlo? Credo che avrebbe un forte valore simbolico in un’università che ha visto nella sua storia millenaria avvicendarsi solo uomini: i profili non mancano, e sono tante le donne che nel nostro Ateneo realizzerebbero al meglio questa funzione.
Cosa si sente di consigliare alle giovani colleghe e alle studentesse?
“Il consiglio più grande che posso dare è certamente porsi obiettivi chiari e investire su se stesse come persone. Una buona dose di autostima che deriva dal pensarsi “capaci”, è già metà dell’opera. Alle mie colleghe più giovani suggerisco di non abbracciare solo la dimensione competitiva, ma anche quella collaborativa. Questa è una corsa che si fa insieme agli altri, non da soli. Lavorare in rete é importante, lo scambio di competenze è fondamentale, così come aprirsi alle collaborazioni internazionali, ma soprattutto occorre amare il proprio lavoro: la ricerca è una vocazione che può dare immense soddisfazioni, a patto che non lo si faccia strumentalmente”.
Se la sua carriera avesse implicato il rinunciare a fare famiglia, come succede spesso, avrebbe accettato?
“Avrei rinunciato. Tra l’altro avere una famiglia permette di affinare capacità organizzative e di problem solving, che sono molto utili in questo lavoro. Poi non si capisce perché sia necessario dover rinunciare a qualcosa”.
Secondo lei le donne hanno raggiunto qualche traguardo, in questi anni?
“Sì, sono arrivate ad un livello di consapevolezza molto alto delle loro capacità, e hanno sviluppato alcune specificità tipicamente ‘di genere’, come ascoltare e mediare: tutte competenze molto utili alle organizzazioni in cui vivono; per questo, seppurelontane dalla parità, spesso le donne hanno visto crescere il loro peso”.
Lei è stata Garante della partecipazione per il Comune di Bologna e responsabile scientifico dei laboratori di quartiere. Che lavoro é stato, che ruolo ha svolto?
“Nel 2017 sono stata il Garante della partecipazione per il Comune di Bologna. Avevo un ruolo di supervisione scientifica del processo attuativo del Regolamento per il Bilancio partecipativo, che veniva realizzato per la prima volta. E’ stato un ruolo giuridico che mi ha permesso di comprendere i delicati processi di funzionamento della macchina amministrativa. Per quanto attiene ai laboratori di quartiere, ho lavorato con l’allora Urban Center, gli assessori, i presidenti di quartiere, i tecnici, i cittadini. Ho potuto osservare da vicino i processi di coinvolgimento dei cittadini e la crescita di una cultura amministrativa diversa, di tipo orizzontale. Si è trattato di un vero e proprio esperimento sociale, una ricerca-azione, che ha generato mutamento e innovazione nei modelli di governo della città. Credo che la rinascita della partecipazione che Bologna ha sperimentato negli ultimi mesi debba moltissimo a questi processi.