Gli anni amari

Il ritratto di un artista in lotta per la liberazione dell’Uomo.

di Stefano Casi


Portare al cinema il racconto della vita di Mario Mieli ai tempi del coronavirus è paradossale e illuminante al tempo stesso. La storia di un attivista che ha fatto del corpo e della sessualità il fulcro del suo impegno intellettuale, artistico (e, va da sé, esistenziale) si scontra con i decreti delle “distanze di sicurezza”, della paura a toccarsi e stringersi le mani. La cosa è ancor più straniante se si pensa che Mario muore suicida nel 1983, esattamente pochi giorni dopo la pubblicazione in Italia del primo articolo dedicato al “cancro gay”, come veniva chiamato in quei primi tempi l’Aids. La sua vita, spezzata a neanche 31 anni, si concentra in quegli anni 70, che nel titolo del nostro film diventano Gli anni amari, dove la liberazione dell’Uomo passava per la liberazione sessuale, e dove quest’ultima era per Mieli prima di tutto liberazione dai confini nei quali la “educastrazione” aveva rilegato e fissato le diverse identità sessuali, e quindi prestabilito il posto di ciascuno nella società.

Con Grazia Verasani e Andrea Adriatico, che ne è anche regista, abbiamo scritto il film con uno sguardo ‘strabico’. Abbiamo cercato di entrare in profondità in quel lontano passato recente (l’ossimoro è voluto) e in quella vita che ha concentrato bulimicamente in pochi anni una straordinaria esuberanza insieme a un’attrazione pericolosa verso la solitudine e l’abbandono. E al tempo stesso abbiamo pensato ai quarant’anni che ci separano da quelle vicende, pensando non solo a chi ne ha memoria, ma soprattutto a chi non le conosce. Prima di tutto, il movimento che da “omosessuale”, o meglio “frocio”, è diventato “lgbtqia”: come risuonano gli slogan delle “checche rivoluzionarie” nell’epoca delle unioni civili? Nel film ci sono molti e sottili rimandi all’oggi, nel senso che l’uso di alcune parole e la sottolineatura di alcuni concetti, la scelta di soffermarci su precise scene o personaggi, rispondono non solo all’esigenza di restituire correttamente quella storia e di farlo in un modo narrativamente interessante per lo spettatore, ma anche alla nostra idea che questo film non debba essere solo un esercizio di memoria o un semplice biopic informativo ma sia anche una preziosa occasione di riflessione. Riflessione non solo per i diritti delle identità e degli orientamenti sessuali, ma più in generale sulla società e sulla politica. Il “gaio comunismo”, per esempio, è espressione quasi preistorica, ma rischia oggi di suonare futuristica.

Mario nel nostro film è una personalità reale, che ha gioito e sofferto come ogni adolescente coetaneo che nei suoi vent’anni ha provato a immaginarsi un altro sé, libero da ogni sovrastruttura: lui ci ha provato a costruire non un altro sé, ma tanti, e non solo a causa di una psiche fragile, ma soprattutto in nome di quella molteplicità che ogni persona incarna. Ma in Gli anni amari, Mario e il suo impeto trasgressivo diventano anche lo specchio in cui invitiamo la società attuale a guardare, quella che, pasolinianamente, definirei “dopo il genocidio”, in questo caso non della civiltà contadina ma di quella popolazione delle utopie che ha abitato gli anni 70.

Per questo, Mario entrerà nelle sale cinematografiche con il nostro film, anche a Bologna, invitandoci nel suo mondo, anche se seduti “a distanza di sicurezza”. Con il sospetto che lui quella distanza l’avrebbe infranta abbracciando una per una le persone venute a vederlo.


Rispondi