Chi governa avrebbe anche il compito di assicurare, con certezza del diritto, una garanzia minima per tutti i lavoratori, specialmente per quelli più deboli: che ora sono ancora più soli e più deboli, senza mense ma pure senza i bar per la pausa pranzo, con meno mezzi pubblici per raggiungere il posto e con più paura
di Meri De Martino
Ci si salva e si va avanti solo insieme e non solo uno per uno. Una frase bellissima pronunciata da un grande uomo come Enrico Berlinguer, ma di difficile applicazione quando le nostre vite vengono travolte da una difficile emergenza. Le minacce del Coronavirus e le stringenti misure prese per contrastarle ci rendono tutti più vulnerabili sotto tanti punti di vista. È in queste occasioni che nascono le iniziative più belle e solidali, lo abbiamo visto a Bologna come in tante altre città, ma è in queste occasioni che si innescano anche altri meccanismi, meno virtuosi. Uno su tutti, la confusione del “si salvi chi può” che si è generata nel mondo del lavoro. In mancanza di una norma puntuale, ognuno ha preso strade diverse, ma c’è anche chi non ne ha presa nessuna perché il Dpcm, per come scritto, glielo consente. È successo, allora, che a Bologna Tper abbia deciso, legittimamente, di diminuire le corse degli autobus dal 12 marzo. Autobus usati dagli stessi lavoratori che continuano a recarsi sul luogo di lavoro e che, da quel giorno, hanno avuto un servizio pubblico ridotto. Oppure è successo che, sebbene la norma non abbia vietato l’apertura delle mense, queste abbiano chiuso lo stesso, nonostante nei pressi continuassero a esserci lavoratori con orari full-time e nonostante tutti i bar e ristoranti fossero stati chiusi per disposizione ministeriale.
La causa di questa confusione è da rilevare nel Dpcm che, a parte alcune chiusure obbligatorie, su ciò che riguarda le “attività produttive e professionali”, lascia in capo ai datori di lavoro la possibilità di scegliere come muoversi limitandosi a “raccomandare” ed “esortare” alcune soluzioni come il lavoro agile, i congedi e le ferie (punto 7 del Dpcm dell’11 marzo 2020), ma senza prevedere un sistema di controlli e disposizioni. L’ulteriore protocollo firmato da sindacati e governo il 14 marzo, pur comprendendo delle buone misure, si rivolge alle attività produttive.
Naturale conseguenza di raccomandazioni ed esortazioni è stata la nascita di forme distorte di autoregolazione. Salvo per i fedeli al “dio liberismo”, è noto come l’autoregolazione generi disparità inasprendo le condizioni dei lavoratori più isolati (non appartenenti a categorie strutturate) e più deboli (con contratti precari o a tempo determinato), rendendoli ancora più soli, ancora più deboli e, in questo momento, anche con meno mezzi pubblici per recarsi al lavoro, senza mensa per la loro pausa pranzo e con più paura.
Nello stesso momento in cui si chiede a tutti di restare a casa, si chiudono i parchi (proprio a Bologna la prima ordinanza) e si chiede a ciascuno di fare la sua parte, ci sono lavoratori che potrebbero lavorare da remoto, ma che non lo fanno poiché non è prevista una disposizione specifica per i loro datori di lavoro e, quindi, nei fatti, mancano di tutele e garanzie.
Chi scrive si rende perfettamente conto del difficile equilibrio che il Governo è impegnato a tenere insieme, ma chi governa avrebbe anche il compito di assicurare, con certezza del diritto, una garanzia minima per tutti i lavoratori, specialmente per quelli più deboli. Penso ai giovani con contratti precari o neoassunti, soggetti non particolarmente a rischio per il virus ma che in molti casi, per necessità, vivono con genitori o nonni, ma penso anche a quei lavoratori più avanti negli anni che vanno avanti con rinnovi di contratti a tempo determinato o ai collaboratori occasionali che quando sono fortunati continuano a recarsi in ufficio senza permettersi di chiedere nulla visto che molti di loro sono già rimasti senza lavoro e senza ammortizzatori sociali.
Per andare in contro a queste categorie senza che questa settimana appena trascorsa fosse di grande incertezza e confusione per tutti, sarebbe bastato aggiungere alle raccomandazioni anche un sistema di obblighi e controlli.
Ad esempio, prevedere che la riorganizzazione di uffici, settori e aziende fosse prevista per tutti i settori lavorativi in via obbligatoria attraverso il ricorso ad alcuni istituti raccomandati, come lo smart working, i congedi, le ferie, le turnazioni, così come bene elencati al punto 7 del decreto. Oltre a questo, si sarebbe potuto prevedere che su tali piani di riorganizzazione fosse previsto un sistema di verifiche a campione sulla loro idoneità da parte di organismi/istituzioni preposti al controllo. Una misura di questo tipo, seppur gravosa, avrebbe messo in capo a tutti i datori di lavoro la responsabilità di riorganizzare i propri uffici/settori in ottica di una maggior sicurezza e minor presenza fisica nel luogo di lavoro, avrebbe assicurato a tutti i lavoratori, a prescindere dal settore di appartenenza, un cambiamento nelle modalità di lavoro e avrebbe lasciato un certo margine di scelta nello stabilire in che misura adottare gli istituti raccomandati dal decreto in accordo con i lavoratori. Le difficoltà sono grandi per tutti ed è normale che l’eccezionalità del momento abbia comportato un numero considerevole di decreti, ordinanze e protocolli, in tempi così ravvicinati. Ma questo è il momento di marciare insieme e di assicurarci che davvero nessuno resti indietro. A tutti è richiesto uno sforzo aggiuntivo. Questo è particolarmente necessario per chi vive già in condizioni lavorative più precarie. C’è ancora tempo per farlo.
Nel solidarismo alterno dei nostri tempi ce ne sarebbe un gran bisogno. Da iscritto Cisl vedo che i sindacati hanno una maggiore attenzione per queste problematiche, ma con poca efficacia. Precari, bambini e disabili sono ancora sottotutelati.
gianluigi magri