Bruxelles è impantanata da troppo tempo: è il momento di dar vita a un gruppo parlamentare di fautori di un’Unione politica più stretta, da cui far sorgere un “governo ombra” capace di mostrare che un’altra Europa è possibile
di Fulvio Cammarano, storico
In questi giorni, mentre dilaga la pandemia, si avvertono sottotraccia molte tensioni sul ruolo della politica nel risolvere l’emergenza. Mentre la maggior parte di noi si sta impegnando soprattutto ad adattarsi alla quarantena a bassa intensità imposta dal governo, nei media e sui blog sono cominciate riflessioni sui compiti e le responsabilità dei governi in questi frangenti epocali. Gli esempi dell’efficienza cinese – che vanno dalla risoluzione dell’epidemia nelle regioni colpite, all’organizzazione degli aiuti per l’Italia – contribuiscono a rinfocolare la discussione e a interrogarsi su quale sia il sistema politico più efficiente nei momenti di crisi. Ed è questa la parola chiave del momento. Da sempre usata a sproposito, per pigrizia mentale, ad ogni stormir di foglie, la crisi ci appare oggi con il suo vero volto che è quello dell’incertezza, del bivio, del punto discriminante di una malattia, quello in cui decide tra la vita e la morte di un organismo.
Inutile dire che, paradossalmente, proprio la gravità della crisi sarebbe stata l’occasione ideale per l’Unione Europea per uscire da una zona grigia in cui è impantanata da troppi anni, ritenuta dai più un organismo di tutela degli interessi finanziari, del tutto indifferente alla dimensione materiale, alla sfera sociale dei cittadini europei. Il silenzio e l’ordine sparso, le voci contraddittorie che si sono levate da Bruxelles in questi giorni confermano invece che l’Unione sta perdendo l’ennesima occasione, continuando a presentarsi come sede di un farraginoso coordinamento tra governi nazionali. Ed è a questi ultimi che tutti noi torniamo sempre più spesso a guardare quando compaiono problemi, anche se, ormai, gran parte delle emergenze non ha più frontiere e non può essere richiusa all’interno dei confini degli Stati.
Per quale motivo, questa catastrofe sanitaria avrebbe dovuto essere un’opportunità storica per provare a dar vita a un’Unione più solida e credibile? Perché, come sappiamo, il principale motore dei processi di unificazione tra comunità o stati sovrani è sempre stata la paura per la sopravvivenza e la tenuta delle singole collettività. L’Europa non si è mai avvicinata così tanto all’unificazione politica come quando, tra il 1950 e il 1953, le fragili nazioni che la componevano hanno temuto di essere alla vigilia dell’invasione sovietica, prospettiva unitaria che poi, passato lo spavento, è venuta meno con la morte di Stalin. Oggi di fronte all’angosciante diffusione della pandemia, la sola indicazione che sembra provenire da Bruxelles riguarda la possibilità di derogare al “Patto di stabilità e crescita” dell’Unione. Per il resto il solito “ognuno per sé, Dio per tutti” con la consueta babele delle frontiere, chiuse-aperte-socchiuse, in un carosello di riconoscimenti, ritorsioni e dispetti tra cancellerie che poco ha a che fare con una comune strategia di lotta agli effetti del Coronavirus. Ma se questa è una guerra – con tanto di quotidiani bollettini dei caduti e dei feriti, con le emergenze e gli eroi, con il divieto di socialità, con gli accaparramenti e il mercato nero e il grave deragliamento dell’economia – come è possibile che una classe politica, per quanto divisa e frammentata al proprio interno, non senta il bisogno di fare un passo in avanti nelle politiche comunitarie?
Come è immaginabile proseguire con la miopia nazionale di fronte ad un mondo in cui le sfide sono e saranno sempre più planetarie? Come non pensare a uno scatto d’orgoglio di una risposta degna di una, sia pur virtuale, grande comunità politica? Inutile dire che il perdurare dell’assenza di una voce comune dell’Unione europea – la maggiore potenza civile del pianeta, sostenitrice della salvaguardia dei diritti e delle libertà – provocherà delle gravi ripercussioni anche in termini di attrattività dei modelli democratici. In queste settimane in tutta Europa migliaia di persone in carne ed ossa si trovano nella condizione di ansia di chi teme per la propria vita, e dunque è inevitabile una domanda di più governo, di più unità di comando che riesca a tenere sotto controllo l’angoscia della fine di un mondo. Se eravamo alla ricerca della prova che l’Ue non è più in grado di uscire dalla torre di Babele (voluta?) in cui si trova prigioniera, la pandemia ce l’ha fornita. Un segnale però che in un mondo di vasi di ferro l’Europa è più che mai indispensabile e non si arrende all’attuale interessato piccolo cabotaggio fatto di scambio di interessi, bisognerebbe darlo. Perché, ad esempio, non dar vita, nel Parlamento europeo, adesso nel bel mezzo della crisi, a un gruppo parlamentare di europeisti, a prescindere dalla collocazione politica, cioè di fautori di un’Unione politica più stretta, da cui far sorgere un “governo ombra” capace di mostrare che un’altra Europa è possibile?
Un’occasione per una unificazione politica stimolata dalla necessità di prevenire un rischio, come quella qui ricordata ….
L’Europa non si è mai avvicinata così tanto all’unificazione politica come quando, tra il 1950 e il 1953, le fragili nazioni che la componevano hanno temuto di essere alla vigilia dell’invasione sovietica, prospettiva unitaria che poi, passato lo spavento, è venuta meno con la morte di Stalin.
si è ripresentata tra il 1990 e il 1993.
Una rievocazione storica di quegli anni potrebbe farli ricordare come vigilia della colonizzazione dell’Europa da parte delle piattaforme digitali nord americane.
Il rischio da prevenire, se fosse stato politicamente percepito, avrebbe dovuto essere la frammentazione di processi collettivi di acquisizione di conoscenza pubblica, simili a quello che, in ambito scientifico europeo, aveva appena fatto nascere il Web.
Oggi, al tempo del Coronavirus, tra gli errori da proporsi di riconoscere per ripartire, quando avremo vissuto la gestione dell’attuale emergenza, prendiamo in considerazione l’errore di NON aver fatto precedere, all’evoluzione delle piattaforme per il commercio elettronico [e-commerce], l’uso della rete al fine di diffondere l’apprendimento in rete [e-learning].
Senza quell’errore avremmo iniziato ad imparare come telelavorare, aggregando esperienze che si potevano iniziare a vivere fin dai tempi dei PC M24 Olivetti degli anni 80.
Questo avrebbe permesso, ai governi degli stati membri di una potenziale UE, di imparare a “cooperare in rete” [interoperare], partendo dal basso!
Tra le esperienze formative da vivere dovremmo ora includere la ricerca di un rimedio al danno culturale ed economico creato da piattaforme tecnologiche “proprietarie”, che ci hanno fatto mancare una comunicazione inter personale/generazionale “al passo” con un processo evolutivo, dalla cooperazione in ambito sociale tradizionale analogico, alla interoperabilità in ambito sociale “aumentato” dalla tecnologia digitale.
Chiediamoci, alla buon’ora, che utilità educativa possono avere, in termini di apprendimento in rete, gli spazi commenti dedicati ai lettori di siti web, se non permettono di cogliere l’occasione di esercitarci a “metacomunicare”, ad esempio commentando la seguente lettera, che inizia con un invito “a non leggerla” .. [cioè? e se fosse una “metalettera”? se volesse dirci di “agirla” o di “eseguirla”, senza limitarci a “leggerla”?? ] :
“Coronavirus: quando sarà finita, ripartiamo dagli errori” https://rep.repubblica.it/pwa/lettera/2020/03/19/news/coronavirus_lando_errori-251701006/
Chiediamoci se sia educativamente utile, per il lettore e per la redazione del sito che l’ha pubblicata, che il commento alla lettera, inserito dall’Utente 86861 [e abbonato “in prova”], tendente ad esprimere la sopra esposta intenzione di dialogo, sia finito cestinato – o “censurato” -.
Chiediamoci se sia il caso di cercare un accordo, con redazioni di siti web che affermano di voler sostenere un “discorso pubblico partecipato” [tipo https://cantierebologna.com/2020/03/03/informazione-digitale-e-discorso-pubblico/ ], sul come sperimentare modalità di dialogo online che permettano di superare i limiti dei commenti sui siti web, oltre a quelli delle conversazioni via “strumenti social” che hanno l’ambizione di essere “decentralizzati”, come voleva e doveva esserlo il Web nato in Europa.
Luigi Bertuzzi