Dopo averlo distrutto, ora lo reclamiamo a gran voce. Globalizzazione, tecnocrazie, reddito universale
di Massimo Gagliardi, giornalista
Con Mani Pulite abbiamo demolito la prima Repubblica perché corrotta. Con Berlusconi abbiamo preso a picconate lo Stato perché bisognava trasformarlo in un’azienda. Con Monti lo abbiamo dovuto avvilire per evitare il default. Con Renzi abbiamo rottamato la burocrazia e i corpi intermedi. Con i grillini abbiamo odiato la Casta.
In venti anni abbiamo ridotto lo Stato a brandelli. E ora ci lamentiamo perché attorno a noi vediamo una classe dirigente smarrita. Il bello è che, arrivato il virus, siamo tutti chiusi in casa, costretti a pietire l’intervento di quello Stato che abbiamo tanto biasimato.
Dallo Stato ora vogliamo: cassa integrazione per i lavoratori dipendenti, 600 euro per gli autonomi, reddito di emergenza dopo quello di cittadinanza, tanta tanta sanità, il rinvio dei mutui,il rinvio delle tasse, il rinvio delle bollette, il rinvio di tutte le multe, un pacco di pasta per i più poveri. Allo stato chiediamo tutto. Tanto siamo chiusi in casa. L’alibi è perfetto.
Dall’Europa inoltre pretendiamo: flessibilità, solidarietà, rinvio del patto di stabilità, utilizzo dei fondi avuti, mai spesi e che avevamo persi, Coronabond, via libera agli aiuti di Stato. Appunto.
Dalla Bce esigiamo soldi, soldi, soldi. Con l’elicottero.
Siamo impossibilitati a lavorare, possiamo solo mangiare. Ma abbiamo bisogno di un padre che porti la pagnotta a casa. Siamo come uccellini che aspettano l’imbeccata.
Una volta eravamo cittadini. Poi siamo diventati consumatori. Col reddito di cittadinanza siamo diventati divanisti. Ora siamo uccellini indifesi. E il potere dello Stato, dopo decenni di appannamento, cresce.
Conte sale negli indici di gradimento, Mattarella superstar critica l’Europa, con più autorevolezza di Salvini.
IN ORIGINE FU L’UNITÀ D’ITALIA
C’era tutto da fare. Lo Stato unitario collegò Nord e Sud con le ferrovie, costruì le acciaierie per le rotaie e per la flotta del Regno. Prima grande ondata migratoria, guerra di Libia, prima guerra mondiale, influenza spagnola, occupazione delle fabbriche e fascismo. Poi venne Wall Street e la crisi del ’29 che dagli Usa si propagò al mondo. Si dovette cambiare musica.
“Con Keynes per la prima volta le spese statali divennero importanti e questa ridefinizione dello Stato come fattore di crescita del reddito nazionale costituì uno sviluppo decisivo nella teoria del valore” (Mazzucato).
Anche il Duce dovette correre ai ripari e varò l’Iri. Lo Stato fascista divenne madre; nacquero le tre Bin, le banche di interesse nazionale.
IL BOOM DC
Seconda guerra e boom economico. I democristiani, figli di don Sturzo che aveva fondato anche le casse rurali, s’inventano la riforma agraria per dare la terra ai “cafoni” del Sud e la Cassa del Mezzogiorno per sanare il famoso dualismo territoriale. Ma lo Stato scudocrociato si inventa pure l’industria chimica e Mattei fa grande l’Eni. Ippolito s’inventa il nucleare. Lo Stato avvia il quarto centro siderurgico a Taranto e assorbe le più svariate attività private; i suoi tentacoli arrivano dappertutto, fino ai panettoni. Nasce una nuova casta di burocrati di Stato, li chiamano i Boiardi. Il loro potere è enorme, a volte eccessivo. Contano quanto, e a volte più, dei vari Agnelli, Pirelli, Falck.
GLI ANNI OTTANTA
Nei primi anni Ottanta comincia l’opera di demolizione delle Partecipazioni statali, e con esse, del patrimonio pubblico. “Tra il 1970 e il 2010 il patrimonio pubblico italiano è sì cresciuto…ma molto meno del patrimonio privato, la cui straordinaria crescita è in parte ingannevole…anziché pagare le tasse per equilibrare i conti pubblici, gli italiani hanno prestato denaro al governo acquistando Buoni del Tesoro o attivi pubblici, accrescendo così il loro patrimonio privato senza accrescere il patrimonio nazionale” (Piketty).
Nel frattempo, correva l’anno 1995, Clinton aveva abolito il Glass-Steagall Act che fino ad allora aveva separato le banche d’affari dagli istituti di credito: era nata la finanziarizzazione dell’economia. Quella che ci porterà alla crisi dei subprime.
WTO E SOVRANISTI
L’11 dicembre del 2001 è la data che cambia la storia recente del mondo: il Wto apre le porte alla Cina. La crisi del 2008, a ripensarci, ha avuto effetti meno duraturi. La globalizzazione guidata dalle tigri asiatiche ora fa paura e i sovranisti capiscono che gli imprenditori, che prima speravano di sfruttare il mercato e la manodopera asiatica, ora chiedono protezione. Così come il cittadino che ora chiede allo Stato di proteggerlo dagli extracomunitari che sono violenti quando rubano e spacciano ma che sono utili quando lavorano come schiavi nelle vigne dell’astigiano o nelle pianure pugliesi.
Lo Stato, lo Stato.
Quello Stato che nel frattempo avevamo avvilito, svenduto, mortificato, ora lo rivogliamo forte. Gli emergenti grillini usano lo Stato per sussidiare il loro bacino elettorale con il reddito di cittadinanza e ad ogni crisi aziendale non sanno far altro che accollare aziende allo Stato. Come si tempi della vecchia Dc. L’Alitalia è sempre lì, sacro totem che sfida ogni intemperia. Anche la sinistra medita sui suoi errori: “La democrazia richiede uno Stato forte” (Rampini).
TECNOCRAZIE
Ma forse non basta perché la globalizzazione richiede rapidità di decisioni anche alla politica. Torniamo a guardare con qualche invidia a Oriente, al regime comunista cinese che decide con un colpo di penna la deportazione di un milione e mezzo di persone per costruire la diga delle Tre Gole o la chiusura militare di Wuhan, 11 milioni. “Le democrazie producono compromessi, le tecnocrazie propongono soluzioni”, osserva Parag Khanna. E non c’è solo Pechino. La tecnocrazia rappresenta il futuro dell’Asia. E fa gli esempi dell’indiano Modi, dell’indonesiano Widodo, del filippino Duterte.
IL NOSTRO ALEXA
Cittadino non ti preoccupare, il problema te lo risolve lo Stato. Un po’ come dire “ci pensa Alexa”. Il nostro Alexa si chiama Beppe Grillo. Di fronte alla Coronacrisi rilancia il “reddito di base universale” per tutti ” dai più poveri ai più ricchi”. Lo diamo anche agli Agnelli?
E sulle fonti da cui attingere soldi, suggerisce: “Tassare i colossi digitali e tecnologici magari a più alto tasso di automazione o rivedere le imposte sui redditi da capitale”. Oppure mettere le ecotasse “come quelle su carbone, petrolio e gas”. Così il costo si scarica sul consumatore finale e finiamo con i gilet gialli…
Il punto però è un altro: cerchiamo soldi per dare un sussidio (perché questo è il suo nome) o fondi per fare investimenti e opere pubbliche? È meglio dare una mancia a tutti i meridionali e mantenerli in condizione di eterno bisogno, di totale dipendenza, come i famosi uccellini che attendono l’imbeccata della mamma? O sarebbe meglio destinare gli stessi soldi per costruire finalmente anche a Sud strade, aeroporti, fibra ottica, università, centri di ricerca e sostenere le imprese?
Perché in fondo dare questi sussidi che costano somme enormi allo Stato, nel migliore dei casi è un attestato di fatalismo. Della serie: per il nostro Sud non c’è niente da fare. Nel peggiore invece, rispecchia una visione razzista: questi qui non ce la potranno mai fare. Diamogli una mancia. E non venitemi a parlare della rivoluzione tecnologica che cancella i posti di lavoro. Al Sud le società web sono affare di pochissimi.
Eppure, eppure lo Stato è già tornato, alla grande. E qualcuno torna a fare facili previsioni. Da questa crisi usciremo con le ossa rotte. La maggior parte delle aziende deboli, falliranno. Quelle di un qualche interesse strategico le salverà lo Stato. I nuovi boiardi si fregano già le mani.
Il consumatore-uccellino si accontenterà dell’imbeccata. E ridiscenderà al rango di suddito.
PESSIMISTA? NO, REALISTA
Togliere le preoccupazioni al cittadino (ci pensa lo Stato) vuol dire dargli il grande alibi di non prendere iniziative, di non prendersi responsabilità e di lamentarsi con lo Stato ad ogni piè sospinto. Che è cosa ben diversa da un moderno sistema di welfare.
Eppure. Eppure in Italia c’è una corrente di pensiero assistenzialista (il modo più veloce e più dannoso per ottenere il consenso elettorale, Dc docet) che riemerge fortissima in questi ultimi anni, indotta dalla crisi finanziaria post subprime.
Ora anche la crisi sanitaria, lo “state tutti a casa”. Tra pochi mesi sentiremo le conseguenze di questa crisi, tutta produttiva e che, con un virus che blocca il mondo a macchia di leopardo, spezza le catene mondiali di produzione, commerci, finanza e migrazioni. Le supply chain. E lo Stato dovrà correre ai ripari.
Nel frattempo però, al piacere antico dell’assistenzialismo e del reddito universale (il pacco di pasta di Gava), si somma il piacere moderno di noi socialisti digitali di navigare in un mondo parallelo dove il Grande Fratello Fb pensa a tutto lui. E non pensa solo a darti info sul traffico e il ristorante più vicino. Sorveglia le tue scelte, i tuoi spostamenti, i tuoi comportamenti elettorali. Con i Big Data il futuro è controllabile, calcolabile (vedi Cambridge Analytica).
Un panopticon digitale in cui anche la politica diventa consumo. “L’elettore in quanto consumatore non ha oggi alcun reale interesse per la politica, per la costruzione attiva della comunità. Reagisce solo passivamente alla politica, criticando, lamentandosi, proprio come fa il consumatore di fronte a prodotti o a servizi che non gli piacciono” (Byung-Chul Han).
IL RISCHIO
Realismo significa vedere la pericolosa saldatura che si sta verificando tra antica tradizione assistenziale e moderno controllo telematico. In entrambi i casi la democrazia ha solo da perderci.
Il problema non è lo Stato forte ma uno Stato deviato.
Vogliamo invece uno Stato che funzioni, che assuma decisioni veloci e che sappia guardare al futuro. Che abbia a cuore un moderno welfare e non l’antico assistenzialismo travestito da nuove parole d’ordine. Non vogliamo uccellini sdraiati sul divano e col cellulare in mano. Vogliamo cittadini responsabili e intraprendenti, coscienti dei loro doveri e impegnati per la comunità.
“Realismo significa vedere la pericolosa saldatura che si sta verificando tra antica tradizione assistenziale e moderno controllo telematico. In entrambi i casi la democrazia ha solo da perderci”.
Apprezzo particolarmente questa sintesi in coda. Credo però un nostro dovere di accortezza (proprio in vista delle nostre abitudini storiche -immagino non fosse casuale il ripido excursus storico per sommi capi eclatanti) vigiliare sul costume talmente spensierato di gettare via l’acqua sporca e il bambino che contraddistingue un carattere saliente del nostro Bel Paese. In genere si tratta di un gesto deciso, convinto, pieno di “Ora basta”, “Ci vuole un cambiamento”, “Finalmente” ecc. Lo dico anche perché nel mio piccolo di elettore e qualche volta anche cittadino partecipe della vita civile, credo che un dividendo di responsabilità verso uno dei bambini gettati (siamo almeno sull’ordine delle decine – insomma una discreta anonima strage degli innocenti, poiché l’acqua spesso è sporca assai) me lo debba beccare anche io. Vigilare quindi che nel volere rottamare la parola e il concetto di assistenzialismo non si finisca poi, da un lato con il perpetrare e declinare in vertici di sfavillante nuova tecnologia la stessa vecchia mentalità da sudditi (Tomasi di Lampedusa), dall’altro di mandare in rovina i principi stessi – o ciò che ne resta- di mutua solidarietà, quei principi che fanno della nostra società qualcosa di molto preferibile agli Stati Uniti d’America quando, se povero, sto male ed ho bisogno di cure. Oltre al concetto di Stato, forse oggi occorrerebbe uno sforzo dialettico per riscoprire e prendersi cura del concetto e dell’esperienzia di essere Repubblica. Cosa significa essere una Repubblica democratica? Non credo inutile porsi questa domanda alla luce dell’attuale coprifuoco e di tutte le cose che ci chiediamo in questo contesto. Grazie per il bel dibattito che Cantiere Bologna sta sollecitando.
Gabriele Via