Mauro Felicori: «Far fatturato, perché la cultura non è un lusso»

L’assessore regionale alla cultura e al paesaggio prosegue, nell’intervista a Cantierebologna.com, a spiegare come spingerà per far crescere il mercato e l’occupazione in un settore senza eguali nel mondo. Per riuscirci, chiarisce, questo patrimonio andrà gestito con «cultura d’impresa»

di Giulia D’Argenio e Giampiero Moscato, giornalisti


Mauro Felicori non esita, anche in questa seconda parte dell’intervista, a raccontare cosa abbia in mente nel suo nuovo ruolo di assessore regionale alla cultura e al paesaggio, dopo decenni da civil servant per varie amministrazioni comunali e da dirigente di un’impresa culturale difficile come la Reggia di Caserta, in cui ha svelato uno spiccato spirito imprenditoriale. Il suo tratto burbero (chi lo conosce ben lo ama, nonostante alcune sue ruvidezze, perché sa farsele perdonare con l’intelligenza) si addolcisce quando elenca le sue intenzioni e le sue idee. Idee che hanno risolto molti problemi, in carriera. Successe da direttore dell’edizione 1988 della Biennale dei giovani artisti dell’Europa mediterranea. O quando gestì la candidatura di Bologna Capitale europea della cultura del 2000. Addirittura in modo sorprendente quando, trasferito dall’amministrazione di centrodestra guidata da Giorgio Guazzaloca a un ruolo minore, seppe trasformare “il castigo” in qualcosa da cui trarre luce, non solo per sé. Fu sua l’intuizione di promuovere un progetto per la realizzazione del Cimitero monumentale della Certosa e poi di fondare l’Associazione dei Cimiteri monumentali europei. Un colpo di tacco alla Ronaldo che lo lanciò prima alla Reggia di Caserta e poi al ruolo di commissario della Fondazione Ravello, quindi a quello di direttore, voluto di Ago Modena Fabbriche culturali, per riqualificare, con 120 milioni della Fondazione Cassa di Risparmio, l’ex ospedale settecentesco Sant’Agostino. Ora il suo tavolo di gioco è la cultura di una Regione.

Bologna può avere un ruolo di centro internazionale delle arti, dei saperi e delle professioni culturali?

«Bologna ha già questo ruolo. Sia come centro di saperi, grazie all’università, sia in campo culturale. Sotto il profilo artistico, Bologna è una delle città più interessanti d’Europa. Qui proliferano artisti, videomaker, registi, designer, comunicatori. Il nodo strategico è far fiorire questo vivaio. Nell’intera regione. Tutta l’industria delle arti emiliano-romagnole deve crescere e fiorire».

È l’obiettivo del suo piano strategico?

«Mi ripeto. La mia parola d’ordine è: l’Emilia-Romagna che sfida Roma e Milano, capitali produttive delle arti, come terzo polo dell’industria culturale italiana. Un obiettivo da raggiungere con un piano strategico che prenda esempio dal caso Milano e dalla strategia di Barcellona negli anni Novanta. Un patto politico per ridisegnare il territorio a partire dalla cultura. Il mio obiettivo, per questi cinque anni, è accrescere il fatturato, il mercato e l’occupazione del settore culturale, adottando un approccio industriale, manageriale. Perché la cultura non è un lusso su cui investire dei surplus di bilancio, ma un’economia a tutti gli effetti e, quindi, va gestita con cultura d’impresa».

È possibile immaginare istituzioni culturali “democratiche”, in grado di favorire un dialogo continuo tra centro e periferia? O considera superato il modello policentrico?

«Per convenzione, il centro è quella parte di territorio con maggiore qualità e densità di servizi. In campo culturale, vale la stessa tendenza centripeta, cui si può ovviare solo grazie a un efficiente sistema di trasporto. Per questo il lavoro che la Regione sta facendo in tal senso è fondamentale. La possibilità di spostarsi con rapida comodità permette al sistema culturale di essere più coraggioso, ramificandosi sul territorio. Tutte le realtà locali hanno un forte senso di sé e hanno qualcosa da raccontare. Perché gli investimenti funzionino servono ambizioni proporzionate e il coraggio politico di fare scelte per sostenere ciò che ha realmente valore. Senza dimenticare che turismo e cultura sono due cose diverse».

Avete una strategia per incentivare la “diplomazia dell’arte”?

«La diplomazia culturale è la presa d’atto che, nel mondo, Italia e arte sono quasi sinonimi. Sono convinto che l’aumento degli scambi culturali abbia effetti positivi sulle relazioni politiche e istituzionali. Abbiamo però bisogno di un armamentario più forte. Anche qui servirebbe un approccio più commerciale. Maggiore capacità di promozione. La diplomazia culturale offre importanti possibilità, ma non può prescindere dall’operato di Regioni e Comuni e dalla continuità delle scelte strategiche. L’incrocio tra diplomazia e arti è un processo destinato a dare risultati solo nel lungo periodo. Le continue tensioni elettoralistiche, invece, compromettono molto il successo di queste operazioni».

Quali prospettive vede per l’Unione Europea alla luce dell’inoperosità dimostrata in questa crisi?

«L’Unione Europea ha dimostrato limiti enormi, è vero. Ma attenzione a invocare l’Europa quando serve e disdegnarla quando diventa ostacolo ai nostri desideri. Per stare nella competizione mondiale serve la giusta massa critica che, per noi europei, è nella dimensione continentale. Le politiche comunitarie sono un grande tema, anche in campo culturale. La globalizzazione confronta sistemi come Cina, India, Usa, Russia e se vogliamo che la produzione artistica europea viaggi nel mondo, abbiamo bisogno di una politica culturale comune. Oggi, invece, l’Ue considera la cultura materia di competenza degli Stati nazionali».


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