Non si uccidono così anche le gabbianelle?

Nel giorno in cui la virale mietitrice recide il ramo di Luis Sepúlveda, uno svarione giornalistico di quelli epici gli attribuisce il merito di aver firmato Cent’anni di Solitudine, che invece è il capolavoro di Gabriel García Márquez. Lapsus freudiano che chiarisce bene come il caso e la fretta a volte mettano in moto involontariamente un meccanismo che in altri casi è invece una dolosa macchina del fango

di Gabriele Via, poeta


Ennesimo giorno di quarantena. Luis Sepúlveda muore. Coccodrilli in cornice autorevole, iguane sboccate, pesci muti e mille lucertoline social esprimono il proprio commisurato cordoglio, più o meno sentito, più o meno autentico. Avviene poi che una testata televisiva nazionale titoli troppo repentinamente che è morto l’autore di Cent’anni di solitudine. Che però non sarebbe propriamente il povero Luis, quanto invece il povero Gabriel García Márquez, il cui sesto anniversario della morte ricorrerà proprio domani. Tombola.

Fretta, distrazione, errore computativo di una o uno stagista formatasi o formatosi tra quiz Invalsi e “dillo pure con parole tue”? Sciatteria? Ignoranza? Impossibile non invocare la buonafede. La malafede sarebbe troppo audace.

Sepúlveda appartiene a una generazione che, in Italia, può avere solo motivo di odiarlo. Ciò vale sia per chi, tutto sommato, non trova nulla da dire contro Pinochet (anni fa non credevamo ma la platea abbiamo riscontrato essere corposa e insospettabile), ma soprattutto per chi invece, abitando appunto in Italia, contro Pinochet ha sempre avuto da ridire, tra una festa popolare, un concerto degli Inti-Illimani e qualche convegno estivo di una rivista progressista. E dodicimila chilometri lineari di confort zone e buone opinioni. Ora, senza scomodare Freud, ci sta molto sui coglioni un coetaneo che ha vissuto e sa raccontare, per il quale tutte le cose che noi possiamo vivere virtualmente entusiasmandoci nel seguire le vicende di un film hollywoodiano anni duemila, sono invece per lui una cicatrice viva, una pagina di diario, un ricordo personale.

In fondo noi siamo ancora quelli rappresentati dal film di Dino Risi “Il gaucho”. Sepúlveda va bene per le donne e per i bambini. Non ha niente da dire a gente che si fa andare bene l’Italia delle riforme mancate “per colpa tua” e delle rivoluzioni soppresse nella culla.

E siccome al ragionier Ugo Fantozzi avreste potuto anche dire che Sepúlveda scrisse il Don Chisciotte, ora beccatevi l’editore di Drive-In che gongola vedendo una sua testata titolare che proprio Sepúlveda scrisse Cent’anni di Solitudine.

Soluzioni non ne ho. Dolore sì. Mi ha sempre commosso la capacità di riuscire a raccontare nonostante il dolore. Fino alle lacrime. E quando poi l’immaginazione e la fantasia si mettono insieme per salvare la storia, la dignità e la speranza, ho come il sospetto che i miracoli, misteriosamente, non smettano di camminare con noi.

Così. Consapevole di non avere soluzioni. Mi rendo conto di riflettere. Come capita nella frazione di tempo in cui sei fermo al semaforo.

Per tanti anni siamo stati prigionieri del traffico automobilistico (Fellini e Godard ce lo avevano mostrato in anticipo ma pare non sia servito al ragionare critico e libero). Abbiamo ascoltato assessori e tecnici spiegarci teorie e provvedimenti attorno al traffico. Il progresso tecnologico e le antiche strutture urbanistiche delle nostre città… Poi, un giorno, come una illuminazione: il traffico non è vero che rappresenta un problema comune che cerchiamo di affrontare. Per qualcuno il traffico in sé è già un obiettivo accettabile.

Può essere detto? Trova consenso? Certo che no. Tuttavia determinati interessi trovano beneficio dall’esistenza del traffico. E questo è innegabile. Entro sera interverrà poi un esperto che rassicurerà tutti (dati alla mano) che anche il traffico, come il capitalismo, troverà al suo interno la soluzione dei mali che produce. Pare infatti stia seguendo un corso di introspezione analitica, col supporto di alcune posizioni yogiche e una dieta equilibrata.

Ora (e mi riferisco adesso alla notizia sbagliata che dà per assodato che Sepúlveda – morto davvero – sia autore di un classico della lettura moderna del premio Nobel Gabriel García Márquez) non dobbiamo escludere che quello che può apparire un errore possa invece essere parte di quei motivi occulti ma consistenti per cui il traffico di per sé è già un obiettivo.

E non per complottismo, si badi bene, ma per senso dell’economia.

Del resto il diavolo fa le pentole… non i coperchi. E questo non ha mai significato che la mancanza di coperchi determinasse che prima o poi venisse così sgamato l’artefice del male. Il diavolo non è un dilettante. Al contrario significa brutalmente che fare le pentole gli basta: obiettivo raggiunto.

Oggi mi pare di capire che una simile consapevolezza la gabbianella e il gatto l’avessero già. Noi forse non ancora. Si può morire anche così.


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