Il sostituto procuratore generale Valter Giovannini: «Superare la responsabilità penale dei medici»

Il pubblico ministero invita a considerare modelli alternativi per accertare le colpe in ambito sanitario

di Giulia Napolitano, giornalista


Negli anni in cui è stato procuratore aggiunto, con delega alla sanità pubblica, si era già fatto promotore di iniziative volte ad abolire la responsabilità penale colposa di medici e personale sanitario, oggi che la situazione di emergenza epidemiologica rende ancora più pressante la questione, Valter Giovannini, attualmente sostituto procuratore generale di Bologna, torna nuovamente a ribadire la necessità di liberare la professione medica dallo scacco in cui è tenuto dalla giustizia penale. «Per amor di verità, ci tengo a essere chiaro: questa mia posizione mi vede piuttosto isolato all’interno della magistratura, dove la mia idea è accolta e giudicata come eccentrica».

Dottor Giovannini, in una sua recente dichiarazione riportata dall’agenzia Ansa, lei sottolinea come celebrare il coraggio dei medici eroi oggi, per poi farli sedere tra i banchi degli imputati domani, possa essere una ipocrisia. Quali sono i rimedi o gli strumenti giuridici che consentirebbero di limitare o superare la responsabilità penale colposa di medici e personale sanitario?

Oggi assistiamo a manifestazioni di affetto e a definizioni eroiche riservate a medici, infermieri e personale sanitario, il rischio però che questi possano diventare destinatari di una valanga di esposti e denunce non è più soltanto una eventualità ma una certezza. Sono ormai innumerevoli le iniziative sia individuali che collettive intraprese nei confronti delle strutture sanitarie impersonalmente intese e nei confronti dei medici soggettivamente individuati. Questa situazione mi ha spinto a una riflessione di carattere più generale: se fosse stato prevedibile o prevenibile il rischio di contagio, le varie attività di precauzione o le cautele che oggi sono diffusamente praticate non sarebbero state adottate per primi dai medici che oggi invece contano circa 160 morti professionali?

Ma il problema è forse radicato a monte…

Da anni sostengo come il sistema italiano sia gravato dal peso di due situazioni patologiche: da un lato la percentuale irrisoria di medici condannati rispetto alla mole di denunce e di procedimenti aperti, chiusi per la maggior parte con richieste di archiviazione, sentenze di proscioglimento o di assoluzione per difetto o insussistenza di colpa. Dall’altro il costo smisurato che la sanità pubblica è costretta a sostenere a causa di una vera e propria esplosione della medicina di tipo difensivo, che consiste nella prescrizione di esami strumentali e visite specialistiche a pioggia (alle volte non necessarie) che i medici, per un riflesso condizionato comprensibile, effettuano per evitare che un domani gli possano essere contestati fatti di negligenza e, qualora il paziente subisca lesioni oppure muoia, per ridurre al massimo il rischio del rimprovero che il giudice può muovere. Un sistema che rischia di implodere e che porta a considerare modelli alternativi adottati in paesi, come gli Stati Uniti e la Francia, con una solida tradizione liberal democratica. Nel primo caso, da sempre, non esiste la responsabilità penale professionale per quel che riguarda errori medici, veri reali o supposti. In Francia, da circa una quindicina di anni, si è invece abbandonata la strada della sanzione penale per intraprendere quella della responsabilità ancorata solo a profili civilistici. Il che vuol dire che il personale sanitario è esentato da responsabilità penale ma non, nel caso in cui sia riconosciuta la colpa, dal rifondere i danni (anche se nella forma di un indennizzo, comunque inferiore rispetto al ristoro totale).

Perché dunque non studiare questi sistemi, in particolare quello francese con cui c’è una comunanza di normative e fonti giuridiche, e valutare se è applicabile alla nostra realtà e se la risposta è positiva applicarlo?

C’è il rischio che una limitazione, o sospensione, della responsabilità medica per il periodo dell’emergenza sanitaria, possa tradursi in una sottovalutazione di principi e regole cautelari o in un aumento di comportamenti imprudenti o negligenti?

Una precisazione prima di rispondere: non c’è stata nessuna sospensione della responsabilità medica. Sono stati presentati due classi di emendamenti, uno governativo e uno da parte dell’opposizione, che avrebbero creato per il periodo Covid il cosiddetto “scudo penale” ma, per varie ragioni, entrambi gli emendamenti sono stati ritirati con grande scoramento di tutta la classe medica, che dall’approvazione avrebbe ricavato un po’ di serenità. È chiaro che se fosse stato approvato l’emendamento si poteva correre il rischio di un approccio superficiale da parte del personale sanitario ma, per esperienza, in tutti i procedimenti che ho istruito, non ho mai avuto la sventura di incontrare un professionista della sanità che sia andato in sala operatoria o che abbia adottato delle terapie con superficialità. È chiaro che l’evento morte o lesioni può sempre capitare ma qui occorrerebbe sciogliere un clamoroso equivoco che negli ultimi anni si è radicalizzato nella nostra coscienza collettiva e cioè che l’arte medica possa risolvere sempre e comunque qualsiasi problema. Non è così, l’arte medica non è una scienza esatta e quindi l’evento non voluto  perché parliamo di colpa e non di intenzionalità  può verificarsi. Non c’è più una accettazione dell’evento lesivo come decenni fa. Il progresso tecnico fa sì che ci si aspetti sempre una soluzione positiva e che non si accetti la fatalità o il concorso di fattori imprevedibili.

Tornando al tema cui accennava, ovvero al fatto che l’incertezza normativa costringa i medici a un tipo di “medicina difensiva”, fatta di esami e accertamenti infiniti che riducono il rischio che il sanitario assume. Secondo lei questo atteggiamento limita il progresso della medicina soprattutto in punto di sperimentazione terapeutica?

Non è tanto un problema di incertezza normativa perché normativamente, nel caso in cui si ravvisi un profilo colposo, la situazione è molto chiara: esposto, obbligatorietà dell’apertura di un procedimento in vista dell’azione penale. Io penso invece che la cosiddetta sperimentazione  che comunque va intesa nel senso di adozione di protocolli ben specificati  probabilmente verrebbe incentivata se si riducesse il rischio del procedimento penale. A oggi la priorità per il sanitario è rispettare i protocolli, cioè delle specie di vademecum approvati da comitati di esperti e dalla comunità scientifica che indicano cosa il medico può o deve evitare di fare in presenza delle varie patologie. Proprio perché la scienza medica non è una scienza esatta non è detto però che uno specifico protocollo sia sempre adeguato anche a casi particolari che in astratto rientrerebbero nella protocollazione ma che in concreto potrebbero esigere l’adozione di terapie o interventi extra-protocollo. I protocolli hanno una loro ideazione, gestazione, e quindi vengono modificati con molta lentezza. Ci sono episodi che dimostrano invece come la violazione di un protocollo a volte ha permesso di salvare la vita di un paziente.

Come lei ricordava all’inizio della conversazione, a oggi ammontano a 160 le morti professionali, ovvero medici e infermieri deceduti per Covid. Chi potrebbe essere chiamato a rispondere di queste morti?

Qui entriamo in un settore più generale che è quello della infortunistica sul lavoro e delle malattie professionali. L’essere stato contagiato dal virus nel corso della propria attività professionale in astratto è paragonabile a qualsiasi altra situazione che vede un lavoratore esposto a un rischio nell’esercizio della propria professione. Si tratta in astratto di ipotesi che potrebbero essere sottoposte anche al vaglio del magistrato penale ma che nel concreto trovano la loro risoluzione nell’alveo civile, vuoi perché interviene l’assicurazione sugli infortuni sul luogo di lavoro che copre tutti i lavoratori nel settore pubblico e privato, vuoi perché le stesse strutture sanitarie sottoscrivono delle assicurazioni apposite anche in previsione di questi rischi. Ovviamente è una situazione, quella Covid, eccezionale per cui sarebbe improprio fare un parallelo per esempio con le morti professionali da amianto di cui è chiamato pacificamente a rispondere il responsabile legale che non abbia adottato tutte le cautele. Di fronte a una situazione nei confronti della quale la stessa scienza a livello mondiale non sapeva dare risposte certe, torna ad essere ancora valida quella riflessione iniziale: se fosse stato prevedibile e prevenibile il rischio i medici per primi, al di là delle decisioni dei vertici amministrativi, avrebbero adottato tutte le cautele del caso, cosa che non sempre è avvenuta o se è avvenuta non ha comunque impedito il decesso di ben 160 medici.

L’articolo di Giulia Napolitano è stato scritto per InCronaca, rivista del Master di Giornalismo dell’Università di Bologna


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