Il World social forum, i Friday for future, i movimenti di contestazione giovanile novecenteschi. Un sottile filo rosso unisce questi brandelli di storia: la rivendicazione di un cambiamento dalle radici profonde che, seppur sconfitta, oggi più che mai urge. Proviamo a raccontare ai ragazzi, attraverso una leale corresponsabilità di chi ha esperienza, che il progresso è figlio di partigianeria, ovvero della capacità di prendere posizione. Avremo il coraggio di firmarlo?
di Giulia D’Argenio, giornalista
Nel 2001, a Genova, insieme a Carlo Giuliani moriva un intero movimento politico. Nella scuola Armando Diaz, con i militanti del World Social Forum, finiva massacrata una visione del mondo che parlava di equità e sostenibilità. Un’idea fondata sulla convinzione che la Terra basti per tutti. A patto che le sue risorse alimentino un sistema illuminato dal faro della dignità.
Ma la violenta repressione di quella stagione ha ridotto lo slogan “un altro mondo è possibile” a un ricordo sbiadito, chiuso nei cassetti di una generazione ritiratisi in un limbo. Qualcuno ha resistito, coltivando flebili speranze per un campo progressista che ha fallito. Qualcun altro ha confidato nella possibilità che il vangelo grillino potesse, anche solo vagamente, riportare in vita quello spirito. I più si sono ritratti nel privato della disillusione, conducendo ognuno la propria battaglia solitaria. Contro la precarietà. Contro l’asfittica assenza di futuro. Siamo diventati silenti. Abbiamo abbassato lo sguardo per paura di perdere il poco che ci veniva concesso. Abbiamo dimenticato che quel che ci spetta va rivendicato. Un blocco mentale e culturale che ha avvelenato il clima, innescando una conflittualità che da istanza di giustizia è diventata odio del diverso.
Vent’anni dopo, però, certe parole d’ordine hanno ripreso a circolare. Travolti dai cambiamenti climatici; piagati dalle epidemie e dall’incertezza di crisi devastanti, parliamo di nuovo di equità, di sostenibilità, di redistribuzione della ricchezza.
La situazione è talmente critica che proprio questo è il momento di osare. Ci muoviamo sull’orlo del baratro. La paura ci tiene legati alle poche certezze che resistono. È comprensibile. Ma quando questa tempesta sanitaria passerà, altre burrasche arriveranno. Di diversa natura e forse più complesse. Nessuno le attraverserà da solo, indenne. È in atto una transizione irreversibile.
E se non avessimo più nulla da perdere? Proviamo a rovesciare la prospettiva della paura per adottare quella del coraggio. Dell’ottimismo della volontà e dell’agire. Il caos attuale, come ogni crisi, apre a spazi di creazione. Le opzioni finali sono diverse. Una è la possibilità di dare sostanza a istanze in attesa da decenni. Il World social forum, i Friday for future e, prima ancora, i movimenti di contestazione giovanile novecenteschi. Un sottile filo rosso unisce questi brandelli di storia: la rivendicazione di un cambiamento dalle radici profonde. Bisogna riscoprire il valore del rapporto col passato. Capire che la rivendicazione di diritti e prerogative viene da lontano, darà slancio alla loro declinazione futura. Smetteremo di sentirci soli.
Ma perché questo possa accadere, servirebbe un patto tra generazioni. Un patto di leale corresponsabilità. Non formule di rito, di quelle che si ripetono inutilmente. Da anni.
Servirebbe che gli adulti mettessero in gioco la propria esperienza per ricostruire questo necessario rapporto col passato. Smettendo di ipotecare e indebitare il futuro. Che non appartiene più a loro ma a generazioni che hanno altre – e non meno pressanti – responsabilità. Le migliaia di ex giovani, ritiratisi nello spazio del disincanto, dovrebbero uscire allo scoperto. Senza sottrarsi al conflitto. Con il coraggio delle proprie idee. Un grande male ci opprime e, insieme al Coronavirus, ci rende vulnerabili: un insano asservimento individualista per cui ci si salva assicurandosi il minimo per la sopravvivenza. La pandemia ha dimostrato che nulla è più fragile delle convinzioni e costruzioni umane.
Sarebbe un’impresa titanica, ma un atto dovuto verso i bambini, i ragazzi, i giovani. Quelli che restano lontani da scuole e università, guardandoci mentre ci agitiamo in modo scomposto. Proviamo a raccontare loro che il progresso, anche quello della scienza, è figlio della partigianeria. Ovvero, della capacità di prendere posizione. Ecco il patto tra generazioni di cui avremmo bisogno. Ma chi ha il coraggio di firmarlo?