Che fare per evitare che l’Unione resti un’utopia?* L’intellettuale può dare la scintilla, ma poi servirebbe una “lunga marcia” per il federalismo unitario. Un cammino che potrebbe partire proprio da questo luogo, ideale ponte tra un continente delle città, delle regioni e delle nazioni e l’Europa come nuovo soggetto globale: sotto le Due Torri insegna l’Alma Mater, fu firmata la Magna Charta delle Università, nascono movimenti di successo come le Sardine in grado di cogliere umori e ansie e trasformarli in progetti concreti. Bononia docet
di Fulvio Cammarano, storico
Porre la questione degli Stati Uniti d’Europa come concreto problema politico, e non come innocua fantasia di intellettuali, significa immaginare una vera e propria azione politica che faccia capire come la mancanza di Europa non debba essere considerata una questione secondaria, poco concreta, ma un danno effettivo nella vita quotidiana di tutti noi. È questa la premessa su cui dovrebbe basarsi un movimento di opinione pubblica europeista, consapevole di dover affrontare una delle battaglie politiche più difficili e temerarie che esista: costringere degli esseri umani e relativi apparati a cedere potere.
In questo caso l’obiettivo da raggiungere è quello di spingere democraticamente le legittime autorità nazionali, ventisette esecutivi, a cedere pezzi consistenti della loro sovranità per far nascere un governo vero e proprio dell’Unione europea. Che tutto ciò non si possa raggiungere con un colpo di bacchetta magica, ma solo con un faticoso processo, è evidente. Ma è proprio da qui che dovrebbe avviarsi la proposta politica approfittando di una delle più gravi crisi planetarie dal 1945. Non si può prescindere da una “lunga marcia” che faccia emergere in tutti i Paesi europei pezzi di opinione pubblica più o meno organizzata in grado di esprimere una propria rappresentanza, chiamiamola dei federalisti unitari, la cui principale finalità sia quella di operare per raggiungere l’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa.
In passato ci sono stati molti progetti, più o meno realistici, di costituzioni europee, che sono caduti nel dimenticatoio delle utopie perché è mancato il soggetto politico promotore. Prima delle costituzioni ci vuole il soggetto politico in grado di avviare il processo costituente. Gli intellettuali e gli utopisti con i loro appelli alla razionalità del progetto non hanno chance di successo di fronte alla forza delle consuetudini, delle abitudini, che sostengono la corazza della logica delle piccole, storiche, patrie. Quella corazza si può incrinare solo di fronte alla paura di perdere tutto (è noto che all’inizio degli anni ’50 l’Europa appariva destinata a un’unificazione politica per difendersi dalla paventata, imminente quanto spaventosa, invasione sovietica) o alla pressione di un’opinione pubblica trasversale (per nazionalità e colore politico) che, alla luce di quanto è avvenuto negli ultimi trent’anni, potrebbe cominciare a temere per il suo futuro e a voler ripensare gli strumenti con cui affrontarlo.
Noi europei stiamo di fatto vivendo all’interno di “contenitori” politici, le nazioni, lustri e carichi di storia, ma ormai deboli di fronte a una realtà geopolitica radicalmente mutata che ci condanna a un ruolo di comparse impegnate a contendersi brandelli di riconoscimento dei “grandi”. L’Unione europea non ha sostanzialmente modificato tale condizione di divisione, anche se ha permesso di intravvedere le potenzialità di una comunità nazionale più estesa. Come sempre è successo nei passaggi ex pluribus unum (ad esempio, per quanto ci riguarda, in occasione della nascita dello Stato italiano nel 1861) anche questa volta dovrà essere una minoranza ad avviare il discorso, facendolo crescere in un ambiente ostile in cui il sovranismo prevale anche nei Paesi e nelle leadership che si proclamano europeiste. Tale minoranza, comunque, teoricamente, non dovrebbe portare avanti nulla di eretico o sconveniente: la nascita degli Stati Uniti d’Europa è in fondo una prospettiva che nessuno all’interno della Ue potrebbe rinnegare come principio, salvo considerarla all’atto pratico inattuabile e visionaria. Il realismo è il cemento che tiene assieme il mondo quando il cambiamento appare azzardato e velleitario, ma diventa un freno nel momento in cui non è più in grado di rispondere credibilmente ai dubbi e alle angosce del presente.
Chiediamo dunque a chi osteggia o è scettico sul progetto europeo, di rispondere alla domanda: come si difendono libertà, diritti e benessere dei cittadini all’interno delle nostre piccole patrie in un mondo di giganti geopolitici che non hanno quei valori e interessi o peggio ancora potrebbero volerli sopprimere? Le ragioni del mantenimento del sistema dei governi sono tante e per nulla irrilevanti e andranno tutte affrontate, a cominciare da quella forse più prosaica e “qualunquista”, ma per nulla secondaria che ci ricorda come la formazione di uno Stato federale implicherebbe un downgrading di 27 leader i quali al momento difendendo, legittimamente, la propria nazione godono di uno status ben definito e modellato dai confini degli interessi della propria comunità “sovrana”. Non si tratta di colpevolizzare nessuno, ovviamente, perché a nessuno piace andare dietro le quinte. Ci si va se gli eventi storici ti ci accompagnano. In una situazione in cui per una parte consistente delle opinioni pubbliche, l’Europa unita comincerà ad apparire un orizzonte possibile e utile, questo delle resistenze del ceto politico sarebbe l’ultimo dei problemi, ma oggi lo è.
L’Ue non può fare una sua politica perché dipende dai governi che la formano e dunque continuiamo ad apparire come i capponi di Renzo in zuffa perpetua, dove ogni pennuto-nazione ha gioco facile a dimostrare che la divisione non solo esiste, ma è inevitabile e pertanto non resta che continuare a beccarsi, all’interno, come all’esterno, del pollaio. Uno dei timori più diffusi (e alimentati) nel pensare gli Stati Uniti d’Europa è quello della perdita dell’identità nazionale, il che naturalmente non è vero oltre che impossibile. Un’istituzione federale si dota di organi per agire come soggetto politico unitario, non elimina le differenze culturali e identitarie al proprio interno. Così come regge sempre meno l’argomento ostativo della barriera linguistica, alla luce delle incredibili e sempre più efficaci tecnologie di traduzione automatica simultanea. Molti ancora non lo sanno, ma nel giro di pochi anni tutti potranno conversare in modo qualitativamente più che soddisfacente con il resto del mondo, parlando la propria lingua. Se gli intellettuali spesso producono la scintilla per avviare movimenti e trasformazioni, credo che su questo tema potrebbe essere una comunità, una città a giocare un ruolo determinante, mettersi a capo di un progetto di “fattibilità”. Per diverse ragioni credo che Bologna abbia le carte in regola per diventare la sede ideale di un movimento per la promozione di un federalismo europeo. La città ha un suo evidente profilo cosmopolita, sia per il peso di una delle Università più famose e frequentate al mondo. dalla forte vocazione internazionale (non dimentichiamo che a Bologna è stata firmata la Magna Carta delle Università), sia perché, come dimostra il successo del movimento delle sardine, è in grado di esprimere culture e ambienti, civici ma anche politici, in grado di cogliere umori e ansie, trasformandoli in progetti concreti. Bologna rappresenta dunque il luogo ideale da cui partire per creare un ponte fra l’Europa delle città, delle regioni e delle nazioni e l’Europa come nuovo soggetto politico e culturale.
*L’autore risponde con questo nuovo articolo alla domanda posta da Maria Elisa Traldi (“Prof, ci dai anche delle risposte che da te ce le aspettiamo?”) a commento dell’articolo “La storia corre, l’Europa arranca” del 2 maggio
Afferriamo l’ invito al sogno del prof. Fulvio Cammarano per pensare ad una possibile realizzazione.
Se in Europa c’è un terreno abbondante di frutti squisiti, questo è il mondo della musica.
Su la Repubblica di tre giorni fa (05/05/2020 ; pag.25) è uscita una lettera di Sara Mingardo – una eccellenza della lirica italiana – in cui ella portava a conoscenza dei lettori la triste sorte di tanti artisti che, con la chiusura dei teatri, con l’annullamento di contratti in corso e il silenzio circa i contratti futuri, si trovano senza pane nè rose. Hanno, naturalmente, dei problemi economici che, forse, i sindacati cercheranno di superare. Ma, soprattutto,hanno un vuoto di progettazione, quindi di studio, di allenamento, di organizzazione, che li tiene in una bolla d’ aria, in solitudine.
Già, i sindacati. Sono molto numerosi, per la posizione politica e per i settori di attività artistica. E se consideriamo l’ area europea, ogni paese ha le sue regole e perfino ogni teatro ha le sue pratiche di trattamento.
Risultato : gli artisti si muovono in una giungla. Chi gode di un forte potere contrattuale e/o di agenti con forti artigli, può vivere in tranquilla attesa. Per il momento, ma se la crisi si protrae? Per un cantante o per uno strumentista un anno a vuoto può significare molto.
La strategia di una reale unificazione europea potrebbe nascere da piccole azioni che non entrino a gamba tesa in medias res ( la cosa potrebbe suscitare rumorose insofferenze!), ma che creino una identità di valore e di diritti unificanti.
La musica classica vola sull’ Europa tutta, parla da sola a tutti. La pandemia ha evidenziato intollerabili differenze che si ripercuotono sulla vita dei musicisti. L’organizzazione della cultura, e quindi della musica, rispecchia le identità nazionali e va mantenuta. Si potrebbe, invece, incidere sulla considerazione della figura dell’ artista in quanto lavoratore, considerazione che deve essere la stessa in tutta Europa, e regolata da un contratto quadro comune.
Con il coronavirus abbiamo visto che in Germania, Kulturstaat, non ci sono stati indugi nel tutelare artisti liberi professionisti e artisti stabili nei teatri. La Francia ha un sistema previdenziale che inserisce gli artisti fra i lavoratori; concepisce addirittura un
passaporto per qualità artistiche. Una forma di assistenza, seppur non normata in modo così cogente, è stata prevista anche in Spagna. In Italia, a causa di contratti vecchi e della precarizzazione dei lavori culturali degli ultimi anni, si fatica a mettere in piedi un accettabile e giusto sostegno degli artisti, equiparati agli sportivi…
Potremmo cominciare col dare uno status all’ artista nell’ ambito della cultura e dell’ istruzione artistica in tutti gli stati europei? Sarebbe un primo, piccolo passo verso una reale Unione nella cultura.
Una Atene di Pericle, una Weimar di Goethe, una Firenze medicea, ingrandite a forma di Europa.
Un sogno che non si deve abbandonare.
Sandra Festi e Giovanna Gatta
Ringrazio molto le gentilissime Sissa Festi e Giovanna Gatta per il loro contributo al quale mi piacerebbe, da diretto interessato, dare ulteriore conferma.
Sono un musicista di Bologna e da circa vent’anni ho la fortuna di suonare in orchestre europee come Mahler Jugendorchester , Orchestra Mozart, Spira Mirabilis e Orchestra Filarmonica del Lussemburgo, dove ho potuto vivere in pieno ed effettivamente confermare quanto descritto nel vostro intervento
Per quella che è la mia esperienza, la situazione musicale europea, i musicisti tra di loro, si giovano di un vocabolario artistico comune meraviglioso e ben più avanzato ed immediato di tutto il resto.
Basti pensare che musicisti provenienti da tutta l’area si possono incontrare insieme in orchestra, e con due o tre prove eseguire una Sinfonia di Beethoven con la visione ed unità di lettura artistica tipica di un quartetto d’archi.
Purtroppo però, è vero, che osservando anche nel dettaglio le diverse realtà, non esiste lo stesso vocabolario nel trattamento contrattuale, professionale o sindacale.
Così quando mi capita di lavorare in Orchestre in Italia oppure in Svizzera, in Lussemburgo o in Spagna, magari per eseguire proprio la stessa sinfonia (!), mi vengono corrisposti trattamenti economici o contrattuali totalmente differenti di situazione in situazione, per non parlare delle questioni sindacali
La disomogeneità non riguarda solamente il compenso in se, che a volte va in base ai giorni totali di impegno, tra prove e concerti mentre altre volte invece va a singolo concerto, prove escluse, ma riguarda anche le indennità di viaggio o di orario
Tali spese infatti, per un musicista che si deve spostare, che sia semplice aggiunto in organico o membro fondatore del gruppo: da alcune realtà sono totalmente rimborsate o sostenute, da altre sostenute forfettariamente, in altre ancora (ormai sono in Italia) assolutamente non sostenute e a proprio carico
Credo quindi che, soprattutto dopo quello che stiamo vivendo, con le enormi difficoltà che il mondo della Musica, del Teatro e della Cultura in generale, dovranno affrontare, sia più che mai anacronistica e insostenibile per noi operatori del settore questa difforme situazione..
Spetta a noi proporre in tal senso una visone comune che ci faciliti il compito di fare respirare l’Europa sempre di più di ciò che più la unisce: Musica, Bellezza e Cultura
Vi ringrazio e saluto cordialmente.
Nicola Bignami