Una facile profezia

Ammettiamolo, a Bologna e dintorni siamo abituati a raccontarcela: siamo belli, bravi, liberi, perfetti. Sarà, ma mentre intravediamo la fine del tunnel, ci accorgiamo che in questa emergenza abbiamo troppo spesso lasciato indietro chi è povero, quasi sempre straniero

di Pier Francesco Di Biase, studente


Si resta basiti davanti alle notizie che giungono dalle scuole bolognesi, soprattutto quelle di periferia. Secondo quanto raccontato da Repubblica e Corriere infatti, a oltre due mesi dall’inizio dell’emergenza circa il 13% degli alunni non ha ancora accesso all’insegnamento digitale, in quanto non possiede un dispositivo o non ha la possibilità di accedere alla rete. Ad aggravare la già deplorevole situazione, il dato che la stragrande maggioranza di questi bambini (!) ha origini straniere e una situazione economica familiare a cavallo, se non al di sotto, della soglia di povertà.

Come da copione, come da costume italico, ci si nasconde dietro la burocrazia e l’assenza di fondi. Poi però si scava più in profondità e si scopre che i soldi ci sono (80 milioni dallo Stato e 80 milioni dalla Regione) e che sono stati assegnati direttamente alle scuole, ma queste spesso non sanno come spenderli, oppure non ci riescono, mentre molti insegnanti vengono lasciati soli ad affrontare i problemi. Lentezze, incongruenze, inadeguatezze… Sembra che l’elefantiaca macchina non abbia subito intoppi o contrattempi, ma che abbia semplicemente continuato a funzionare in modo ordinario anche per rispondere a esigenze che sono, evidentemente, del tutto straordinarie.

Ammettiamolo, a Bologna e dintorni siamo abbastanza abituati a raccontarcela. Siamo belli, siamo bravi, siamo liberi, siamo perfetti. E tanto più ce lo diciamo, e tanto più ne siamo convinti. Ma se questo può far contenti noi e lasciar sereno chi ci amministra, di sicuro non ha valore per chi, come questi bambini, abbiamo sistematicamente escluso da questa nostra fantastica narrazione.

E poco importa se lo abbiamo fatto volontariamente o no, se ne eravamo consapevoli o se lo ignoravamo del tutto. Lo abbiamo fatto, punto. E come ogni cosa, anche questa ha delle conseguenze. In fin dei conti, agli occhi di quegli esclusi, non possiamo sembrare poi tanto diversi da quelli che, soltanto pochi mesi fa, volevano liberarsi di noi e di loro. Agli occhi di costoro, a cui abbiamo girato le spalle nel momento del bisogno, non possiamo certo sperare di apparire poi in futuro come amici. E per quanto riguarda noi, possiamo davvero convincerci anche questa volta di aver agito meglio di come hanno fatto gli altri? Dopotutto, che lo si voglia o meno, la discriminazione non è anche, o forse soprattutto, dimenticarsi degli ultimi?

Nessuno è profeta in patria e men che meno vuol esserlo chi scrive. Ma senza troppi giri di parole, se non si risolve immediatamente il problema si corre il grave rischio che questa ferita sociale sia difficilmente cicatrizzabile. E allora non potremo stupirci se saranno poi quegli stessi che noi abbiamo escluso a voltarci definitivamente le spalle. Io stesso farei fatica a dar loro torto.

Nel mio piccolo, innamorato come sono di questa comunità anche nei suoi terribili sbagli, mi accontenterei di rivolgere a chi amministra, e a tutti noi, un semplice, banalissimo invito.

Vergogniamoci, e rimediamo ai nostri errori.


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