Quando Bologna fu Roma. Prima parte

di Gabriele Via, poeta


C’è un romanzo in quattro puntate: quattro notti in cui un uomo e una donna dividono il loro dialogo lungo le strade di una città. Seguiremo questa idea.  Questo loro incontrarsi – forse solo un sogno dalla quarantena – ma un sogno contaminato di ricordi e di speranze. E vedremo sullo sfondo apparire e scorrere la città in tutta la sua bellezza. E con questo stratagemma si cercherà di dare un contributo al ricco dibattito su Bologna e l’Europa che si sta svolgendo su CB. In particolare ricordo il titolo visionario e radicato del prof. Cammarano “Gli Stati Uniti d’Europa potrebbero nascere proprio a Bologna”. Propongo così quattro appuntamenti, come brevi passeggiate filosofiche o poetiche che avranno come argomento Bologna. E a ognuna daremo un titolo specifico sotto il titolo della piccola saga: “Quando Bologna fu Roma”.

Prima passeggiata

Sostenibilità e prospettiva storica

Bologna. Bisogna prendere un bel respiro e armarsi di tanta pazienza per ragionare su questa strana città. Tanto immediata quanto misteriosa. E soprattutto se questo ragionare lo si vuole fare con un’esigenza ben precisa. L’esigenza cioè di raccogliere un’eredità storica per fare la propria parte attiva e consapevole nel laboratorio civile che costruisce oggi il domani. Perché anche questa è sostenibilità. Non viene mai detto, infatti, ma la sostenibilità non si esaurisce negli slogan: economia, ambiente, società. La sostenibilità, che mette in gioco la questione dell’eredità che si lascia alla successiva generazione, mette quindi da subito in gioco la delicatissima questione delle relazioni umane e della relazione fra le generazioni, sia in un senso che nell’altro. E se oggi ci poniamo la domanda: chi dovremo curare prima, il giovane o l’anziano? Possiamo ben capire allora come decenni di dibattito sulla sostenibilità non siano poi permeati davvero e a fondo nella meditazione sul senso della comunità di destino. Teniamoci quindi all’erta rispetto al fatto che si fa molto in fretta a dire le cose. Ma qui, se vogliamo essere laboratorio, dovremo sapere tenere insieme il pensiero, la parola, l’azione e l’opera.

In un recentissimo passato, l’amministrazione comunale ha fatto due cose su cui vorrei richiamare ora l’attenzione. La prima è questa: il decentramento di gran parte degli uffici del comune, che sono stati albergati in una costruzione nuovissima, prestigiosa e complessa, opera di uno degli architetti più importanti al mondo che proprio a Bologna ha scelto di vivere e operare, Mario Cucinella. Così subito oltre le mura nord, al di là del fascio di binari della stazione, vediamo ora sorgere tre costruzioni non in mattoni ma in vetro verde bottiglia. Il Comune fuori dalle mura, vicinissimo alla nuova bianca e sottile stazione dove sfrecciano sottoterra i tecnologici treni ad alta velocità, decentrato in una sede che per impatto ricorda più gli uffici dei moderni centri direzionali delle grandi città che non un antico borgo medievale che affonda le sue radici nell’antichità. Eppure la toponomastica inaugurata per questa innovativa circostanza risuonerà invece dell’antica lingua latina rievocando un momento storico che ci costringe a tornare con la memoria a un evento del 1256, quando per iniziativa di Bonaccorso da Soresina fu promulgato a Bologna il Liber Paradisus, quella riforma che abolì la schiavitù e liberò oltre cinquemila servi della gleba da quella condizione di minorità che più che la modernità richiama immediatamente la storia antica pre-cristiana.

Riorganizziamo dunque le cose: abbiamo una nuova sede del Comune sita fuori porta (e questo è un elemento di discontinuità). Questa nuova sede prende forma in un’architettura moderna (e anche questo è un elemento di discontinuità). Ma l’intero progetto si concentra attorno a una nuova piazza, e l’intitolazione della piazza rimanda a un evento storico cruciale del 1256 (e questo invece è un importantissimo elemento di continuità con la tradizione).

Ecco perché propongo questo esempio della storia molto recente per cercare di definire il tipo di sguardo di cui abbiamo bisogno se vogliamo essere parte attiva e consapevole del laboratorio civile che costruisce oggi il domani di Bologna. Specie ragionando in una visione che integri i valori di un’eredità umanistica in una prospettiva economica e interculturale; ma anche tenendo conto di tutte le correlazioni tra la dimensione locale, regionale, nazionale, europea e planetaria.

La prima cosa che merita una prospettiva simile sarà quindi sedersi, comodi, possibilmente a un tavolo comune, con altri e in dialogo. Un vero dialogo, intendiamoci. Quindi persone, che si riconoscono, si accolgono, si incontrano e si ascoltano. Persone, non massa. Persone. E quindi una rete di corresponsabilità e rispetto. Attenzione, però: qui occorre chiarire una cosa di enorme portata. Dialogo significa anche imporre il tempo del dialogo a tutte le altre diavolerie che ci siamo costruiti e che ora ci rendono schiavi. Oggi questo significa una forza di autodeterminazione di cui nessuno ha più il coraggio. Ma è la nostra storia. Bologna, e continuando le nostre passeggiate lo vedremo, è anche una città conciliare.

E meditando su questi fatti e su questo formarsi di una coscienza storica a servizio del futuro. Procediamo dalla prima alla seconda passeggiata. Aspettatela. Arriva.


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