Scuole all’aperto: la rete e le esperienze bolognesi

Nella nostra città si è sviluppato un processo virtuoso non facilmente esportabile, radicato in un tessuto politico-sociale con una trama peculiare, grazie ad uno “spirito cooperativo” e pragmatico quasi inimitabile. Sotto le due Torri ci sono state delle condizioni facilitanti, una rete di contatti, con progetti a partire dal basso, fatta da pedagogisti, politici, insegnanti, genitori, universitari

di Cristian Tracà, docente


La riapertura della scuola a settembre tiene banco più che mai: sono tantissime le elaborazioni, le proposte e le idee che sono emerse a Bologna all’interno di documenti elaborati da associazioni, scuole e tavoli formali e informali. Sembra profilarsi una convergenza verso una nuova scuola che lavori a gruppi ridotti, con meno ore di presenza in aula e lezione frontale e aperta al territorio e all’ambiente.

Per continuare la nostra riflessione sulla storia e sulle competenze bolognesi nella pratica della scuola all’aperto abbiamo chiesto al Professor Alessandro Bortolotti di raccontarci meglio le esperienze maturate in città e gli studi che lo vedono come protagonista all’interno dell’Università di Bologna dove coordina il Corso di Laurea Magistrale in Management delle attività motorie e sportive e dove insegna Pedagogia speciale e Prasseologia Motoria, con particolare riferimento all’outdoor education.

Lei è un ricercatore e un docente che dedica gran parte della sua attività al tema dell’outdoor education. Bologna può essere davvero un modello su questo tema?

“L’outdoor education è più un metodo, un modo di fare, uno ‘spirito’, che una tecnica – per quanto alcuni accorgimenti o ‘trucchi del mestiere” siano sempre incredibilmente utili! Dunque, è chiaro che si possa (per non dire debba) fare ovunque, ma a patto di saper adattare le proposte alla realtà contestuale. Sono il primo che si sta spendendo per esportare le pratiche, ma con una forte attenzione al loro adattamento alle diverse realtà locali. Sto facendo formazione in Trentino, Veneto, Romagna, dove si trovano insegnanti e dirigenti appassionati e convinti: è assolutamente possibile esportare l’approccio, perfino farne un modello, ma senza commettere l’errore di fare copia-e-incolla”.

Quali sono le esperienze in atto in città che vale la pena far conoscere?

“Non si può non partire dalla rete Scuole all’aperto, ça va sans dire! Ci sono ben sette Istituti Comprensivi nella nostra città che fanno parte di questo progetto e la scuola capofila in Italia è l’Istituto Comprensivo 12 che si trova nel Quartiere Savena. In queste realtà si aderisce ad un protocollo condiviso che prevede tutta una serie di azioni e di impegni programmatici a contatto diretto con la natura, con un esplicito riferimento all’apprendimento per esperienza che ha come presupposti la documentazione, la messa in rete e la continuità nel corso degli anni, a prescindere dal singolo docente”.

C’è dialogo tra scuola e università su questo tema?

“Sì, è forse uno dei campi in cui si realizza uno degli scambi più produttivi. Alcuni membri del Centro di Ricerca e Formazione sull’Outdoor Education del Dipartimento di Scienze della Qualità della Vita dell’Alma Mater, e ovviamente anche di Scienze dell’Educazione, partecipano attivamente alla Rete delle scuole all’aperto. La sperimentazione è collegata ad un percorso di formazione in itinere della durata di 20 ore. Una scuola della Rete ha un ruolo importante anche all’interno di un progetto europeo chiamato Goal (Go Out and Learn) che si doveva concludere con un seminario internazionale proprio nella nostra Città”.

Entriamo nel vivo. In alcuni suoi articoli si racconta come un modello diverso di altalena possa davvero cambiare la storia educativa di un gruppo di bambini.

“Assolutamente sì: parliamo di progetti educativi che non hanno certo paura di ‘sporcarsi le mani’, a volte anche letteralmente. Quella dell’altalena è una storia a cui sono affettivamente molto legato, si riferisce ad un progetto di Ricerca-Azione svolto in un servizio educativo del Comune di Bologna dove abbiamo attuato un’alleanza educativa molto efficace con educatrici e famiglie, alla fin fine giocando all’aperto assieme tra adulti. Sono incontri che mi ricordo ancora bene; un vero e proprio lusso, visto con gli occhi di oggi: imparare divertendosi, emozionandosi, stando bene in compagnia”.

In che modo l’educazione attiva all’aria aperta può potenziare il senso di responsabilità e autocontrollo. Il modello di scuola tradizionale sforna bambini poco autonomi e maturi?

“Il nostro modello di scuola per me è abbastanza adeguato, mi sbilancio e dico che è pure una delle parti migliori della nostra società – soprattutto nella componente del corpo insegnante, magari è diverso se parliamo di strutture (ma questo è un altro discorso). Detto questo, le ricerche dimostrano però come l’Outdoor Education possa dare una marcia in più a livello di motivazione, impegno, sviluppo personale e sociale, ma si tratta di un potenziamento possibile se viene supportato da una struttura sana e solida. Non per scoraggiare nessuno, ma ho toccato con mano che quando si è cercato di fare delle fughe in avanti in contesti poco adeguati, complessivamente non accoglienti, alla fine non siamo andati da nessuna parte”.

Qualche suggerimento per organizzare la didattica all’aperto, dato che si va verso centri estivi che dovranno per forza di cose puntare sugli spazi aperti?

“Alcuni semplici consigli: pianificare e avvisare con anticipo alunni e famiglie (coi primi di solito non c’è alcun problema, anzi, con le seconde occorre diplomazia), scegliere un momento fisso per uscire, andare fuori con ogni tempo (organizzandosi: non esiste tempo bello o brutto ma solo un equipaggiamento adeguato o meno), sfruttare gli spazi esterni per farsi sorprendere dalle curiosità e dalla novità, riprendere le osservazioni in classe e rielaborarle, in modo da attivare processi esperienziali, riflessivi e di ri- progettazione condivisa. Si può fare in tutte le materie, ma almeno all’inizio occorre trovare una chiara cornice di riferimento, altrimenti ci si perde facilmente. S’impara facendo, le potenzialità arrivano col tempo e l’esperienza, all’inizio è meglio non fare troppi voli pindarici”.

Le vengono in mente degli esempi didattici concreti?

“Posso concludere citando un paio di scuole primarie che fungono da ‘fari’ della Rete – mi spiace un po’ per le altre, ma la scelta è dettata dal fatto che preferisco fare riferimenti solo a fonti che conosco bene. Si tratta delle ‘Pavese’ di Bologna (IC 13 di Bologna) e la ‘Terzani’ di Marano (IC di Gaggio Montano). La prima svolge attività outdoor già da alcuni anni, principalmente nel giardino scolastico e nel territorio limitrofo, con un taglio perlopiù interdisciplinare; per esempio hanno creato dei ‘Natural Blitz’ al fine di far osservare e catalogare elementi che i bambini stessi individuano negli spazi esplorati. La seconda, che partecipa al GoaL (il progetto citato prima), segue invece il programma Outdoor Journeys1, il quale propone uscite quasi ‘a sorpresa’ per suscitare la curiosità e gli interessi dei bambini, e che mediante fasi articolate di domande, ricerche, condivisione, ecc., portando conoscenze solide, partecipate e ben ‘incorporate’. Tali forme didattiche consentono ai bambini di diventare i veri protagonisti dei processi d’insegnamento e apprendimento, mentre all’insegnante si chiede di supportarli. Appare ovvio come fare scuola solamente così sia pressoché impossibile, mentre adottare anche un taglio di questo tipo consente invece di creare relazioni inclusive, aperte e profonde, con una ripercussione positiva anche nella didattica frontale. Rimanendo solo entro ambienti e percorsi predefiniti, invece, è molto più arduo ottenere gli stessi obiettivi.

  1. Il programma è stato messo a punto da Simon Beames, Canadese, attualmente prof. di Outdoor all’università di Oslo.

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